tag:blogger.com,1999:blog-68839408257307392662024-02-19T17:38:50.023+01:00Associazione Culturale TerracelesteTerracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.comBlogger16125tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-10070621135321577532008-03-18T11:39:00.002+01:002008-03-18T11:41:24.089+01:00IL BLOG CAMBIA SEDEPER VISUALIZZARE IL NUOVO BLOG CLICCA <a href="http://terraceleste.wordpress.com/">QUI</a>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com37tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-57096318645427475772008-03-17T11:33:00.008+01:002008-03-17T12:04:27.115+01:00Celerina al voto sul grattacielo della discordiaIntervista sul <span style="FONT-STYLE: italic">Corriere del Ticino</span> (CH) alla Prof. Luisa Bonesio sul progetto di Mario Botta per Celerina:<br /><br />Clicca sul titolo per aprire il pdfTerracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-36388762277774007052008-03-08T12:13:00.007+01:002008-03-08T15:33:45.219+01:00Saluti dall’Italia<div align="justify"><strong>Documento di indirizzo per la redazione di linee guida sui nuovi compiti di tutela del paesaggio da parte del Ministero dell’Ambiente</strong><br /><br /><strong>Paesaggio e identità nazionale</strong><br /><br />Sono pagine bellissime quelle in cui un grande poeta europeo, Wolfang Goethe, racconta il suo viaggio in Italia, un viaggio a piedi e lento da Milano a Palermo. In Italia, ci dice il grande poeta romantico, c’è come una magia, una sorta di miracolo che esorbita dalle meravigliose città e dalle opere d’arte: c’è l’unicità di un paesaggio reso possibile da un mirabile intreccio fra una natura straordinaria – dolce nelle valli, ricca di vegetazione, mite nel clima - e una cultura e una storia che hanno saputo porsi come “seconda natura”, ovvero come un sistema di gesti umani che non aggredisce ma imita e valorizza la “prima” natura. Le specie naturali, gli ambienti geografici e le genti vive hanno trovato una contaminazione e una fusione, in un mosaico da cui scaturiscono le ville della lucchesia, gli elaborati giardini, i campi e gli orti popolati di case e di uliveti ma anche gli sfondi dei magnifici quadri di Leonardo, di Tiziano, di Giorgione: vicende pittoriche in cui l’umano in primo piano sembra nascere dagli alberi, dalle rocce, dalla tempesta all’orizzonte.<span class="fullpost">Grazie a questo miracolo l’Italia per tutto l’Ottocento è stata meta ambita del “Gran Tour”, luogo privilegiato di una esperienza di formazione che coinvolgeva l’aristocrazia intellettuale europea: poeti, scrittori e, soprattutto, la “meglio gioventù”. Bellezza, memoria e questa straordinaria armonia, questa biodiversità ricchissima di natura e cultura, che si scopriva magnifica anche quando più tardi, i chierici e i colti viandanti spostarono gli itinerari sempre più verso sud: un “sud del desiderio”, come scrisse Friedrich Nietzsche, dove le asprezze, le rigidità e qualche conformismo della mitteleuropa si spezzavamo di fronte al chiarore del sole, all’azzurro del mare, ritrovando gioia, sensualità, nuova vitalità. Un Sud sulle cui sponde arrivavano le spezie, gli odori, i colori dell’Africa, dove la musica era malinconia araba, dove il fuoco e le nevi dell’Etna rammentavano la Grecia, dove ogni antro, ogni fiume, ogni foresta nascondevano una ninfa o una sirena, rappresentando una inedita ospitalità, una capacità di meticciato, il duplice valore di chi, consapevole di una identità, sa colloquiare con la differenza.<br />Fu certo per questo che Concetto Marchesi, il grande latinista e studioso del mondo classico, uno dei Padri nobili del movimento comunista italiano, si battè nell’Assemblea Costituente per inserire, fra i beni tutelati dalla Repubblica, il paesaggio. In un memorabile dibattito che durò più di sei mesi e che lo vide scontrarsi con l’On. Clerici che ironizzava sull’eccessiva importanza data al tema, Marchesi motivava l’impegno di tutela da parte della neonata Repubblica (e quindi l’inserimento nella Costituzione di quello che fu poi l’art 9), sottolineando come non si trattasse solo di una richiesta di anime belle rivolta a scopi estetici (nella legge del ’39 il paesaggio rientrava ancora nella categoria delle “bellezze naturali) ma di una battaglia per l’identità, per la difesa dei più alti valori civili. In quel paesaggio poteva infatti trovare fondamento etico una nuova idea di comunità, l’idea di una patria concorde e coesa non dal fascismo militare ma dal patrimonio artistico e memoriale lasciato dai Padri.<br />Dopo quasi cinquant’anni, consapevole dei rischi di anomia, di omologazione, di americanizzazione messi in atto da quel grande sradicamento che è insito nei processi di globalizzazione, anche l’Unione Europea ritorna su questa idea del paesaggio come fondamento dell’identità comunitaria dei Paesi membri. In un documento di svolta - La Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa (2000), ratificata dall’Italia nel 2004 - e partendo da una definizione assolutamente innovativa del paesaggio inteso come “una parte di territorio, così come è percepita dalla popolazione, i cui caratteri sono il risultato delle azioni naturali e umane e delle loro relazioni” (un’ idea sistemica che, mettendo al centro i due concetti di “percezione sociale del paesaggio” e di “ambiente di vita”, riesce a legare i paesaggi naturali e i paesaggi culturali, correlandoli alla comunità sociale), rimarca la necessità di porre il paesaggio come uno dei “beni originali” del Vecchio Continente da riconoscere giuridicamente : un “bene comune” da tutelare come ”componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art.5).<br /><br />Il paesaggio naturale e la bellezza<br />La parola “paesaggio”, ci ricorda Luisa Bonesio, è una parola che, nelle lingue europee, è connotata da una singolare ambivalenza. Essa designa infatti sia il territorio, sia la sua rappresentazione caricata di valori estetici. Questo fa sì che il paesaggio, in tutta la tradizione moderna, sia stato inteso non come un “ambiente”, ossia “un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua e pietre” , ma come una “forma culturale”, anzi una “forma simbolica”, per dirla con George Simmel (Filosofia del paesaggio, 1912), ovvero uno spazio che è esterno, sì, ma che, nello stesso tempo, appartiene all’interno, al desiderio inconscio, al sentimento onirico, all’Anima stessa di un individuo o di una civiltà. Ciò che lo costituisce di fatto è perciò lo sguardo, la percezione visiva e soggettiva di un valore (in genere la bellezza). Non a caso è la finestra il punto di vista privilegiato nella rappresentazione pittorica: la finestra che delimita ciò che, al tempo stesso, è natura e visione.<br />Provenendo essenzialmente da una matrice filosofica, anche la tradizione italiana di tutela del paesaggio ha riposto le sue idee di salvaguardia sulla contemplazione e su un apprezzamento di bellezza. In questo senso fu pensata la prima legge di tutela del paesaggio (la 778 del 11 giugno 1922), presentata nel 1920 dal filosofo Benedetto Croce, allora Ministro dell’Istruzione nell’ultimo Governo Giolitti. Croce, richiamando la necessità di difendere e mettere in valore le bellezze naturali ed artistiche d’Italia sia per ragioni morali che di “pubblica economia”, assumeva il paesaggio come “veduta”, facendone la rappresentazione materiale e visibile della patria, del “volto amato della patria”. E anche la legge Bottai, ispirata ai principi crociati, identificava il paesaggio da proteggere “con le bellezze naturali considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di tali bellezze” (Legge 29 giugno 1939, n.1497, art.1).<br />Del resto, il modello vedutistico del paesaggio come “belvedere” e “panorama”, funziona particolarmente in Italia proprio per la qualità della sua “prima” Natura. Essa si mostra infatti con i caratteri appunto del bello e non del sublime: ovvero, come ci insegna Kant, dell’armonico, dell’apollineo, del misurato. E’ una Natura che si può abbracciare con lo sguardo, serena e accogliente, varia sì ma anche rassicurante e ben governata dall’uomo. Una Natura che è insieme femmina attraente e madre generosa, come nel quadro di Leonardo che abbiamo scelto in epigrafe: fruttifera e rotonda, come le uova; morbida anche fra gli alberi, nel verde, che si presenta non sotto le sembianze della foresta misteriosa e illegale o del bosco selvatico e oscuro, ma del “giardino italiano”. Essa parla di una biodiversità assoluta che però, dalla montagna alpina, densa di pascoli e frutteti, agli Appennini fitti di boschi misti di rovere, lecci e castagni, alla boscaglia maremmana, mantiene un andamento dolce e familiare anche quando si rivolge al Sud, formando un paesaggio di alberi educato e profumato: mandorli, fichi, noci, ulivi grandi come sculture umanizzate e avvolte nell’odore caldo e sensuale dei limoni e delle zagare.<br />Questo paesaggio naturale è oggi tutelato per circa il 20% da una rete ecologica di aree protette, riserve, zone di protezione speciale e siti di interesse comunitario. All’apprezzamento classico per la bellezza, si è aggiunta in questi anni , negli impegni di tutela, anche una tradizione che ha alla base il pensiero ecologico e che intende la bellezza – come ci spiega Giuseppe Prestipino – come “la singolarità che sconfina nella totalità per trovare equilibrio, amicizia, comunanza ontologica di tutti gli esseri viventi”; la bellezza dunque come appartenenza comune alla “grande catena dell’essere”, una costellazione dove l’uomo (animale umano) intreccia la sua vita con altre vite, “con la bella famiglia” di vite delle piante, delle stelle, degli altri animali. Tale tradizione ha trovato la sua migliore affermazione nella Legge 394 del 1991 sulle “aree naturali protette” intese come valori intrinseci, “valori in sé” avulsi dal criterio dell’utile (o dell’economico, del vantaggioso, del salubre) da consegnare come tali alle future generazioni.<br />La legge 394 ha portato alla costituzione in sistema dei primi parchi nazionali e ha indicato modi nuovi e forme avanzate di gestione (le “comunità del parco”) per la conservazione dei grandi paesaggi naturali: veri e propri Paradisi, scenari incontaminati di bellezza in cui può ancora sopravvivere una parte di Natura sottratta alla manipolazione umana e destinata alla contemplazione (una contemplazione viva, fatta di passeggiate e godimento e osservazione e studio e gioco). Ad essa si sono poi aggiunte la Direttiva Habitat del ’92 – che assume gli impegni di Rio di protezione della biodiversità - e il D.P.R. di recepimento n.357 del 1997 che, proteggendo i corridoi ecologici, le piste per le migrazioni, le enclaves delle specie, ha contribuito in qualche modo a difendere anche il paesaggio naturale. Come anche fa l’ultimo Decreto Ministeriale (frutto della passione ecologica di questo Governo) sui “Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione e Zone di protezione speciale”, del 17 ottobre 2007), un decreto fortemente avversato dalle lobbies dei cacciatori, dei proprietari di cave e dei nuovi affaristi dell’eolico.<br />Nonostante ciò non si è attenuato il rischio di degrado per l’intero paesaggio italiano. Il quale lo stesso sta perdendo molte delle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nei secoli. Innanzitutto si è drammaticamente semplificato, smarrendo moltissima di quella biodiversità che lo distingueva da quello degli altri paesi europei e del mondo. Secondo alcuni dati forniti da Mauro Agnoletti, coordinatore della Commissione sul paesaggio istituita presso il Ministero delle politiche agricole e forestali, in certe zone collinari della Toscana, dove fino a tutto l’800, in un’area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi erborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 tessere di un ricchissimo mosaico paesaggistico, ora ce ne sono solo 18”. Ciò è accaduto perché fuori dai parchi e dalle zone protette è avvenuto uno scempio e il sistema della tutela basato sulla bellezza e sulla conservazione della natura ha rivelato le sue maggiori inadempienze.<br />Esso infatti non si è occupato del cosiddetto “paesaggio minore”, il paesaggio che non corrisponde al canone di eccellenza estetica o monumentale, né presenta un particolare pregio naturale, ma comunque ha a che fare con la sicurezza idrogeologica, con la riproduzione delle risorse naturali, con il contesto alle città, con la rispondenza al genius loci. Percepito come mero ambiente, questo tipo di paesaggio è ogni giorno aggredito dai rifiuti, dal cemento, dall’industria criminale degli incendi, dai parchi eolici, vere e proprie centrali industriali che, grazie al meccanismo perverso dei certificati verdi, proliferano di pale anche senza vento. Tanto da far pensare, come sostiene Alberto Magnaghi, che ci sia in Italia “una sorta di doppio regime: da una parte piccole porzioni di territorio dove si conservano come reperti museali la Natura (parchi, aree protette, biotopi) e la Storia (monumenti, centri storici, reperti archeologici); dall’altra grandi porzioni di territorio dove le regole prevedono la distruzione sistematica della Natura e della Storia”.<br />Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio può superare questo gap. Esso, fra le tante cose , prevede un nuovo protagonismo del Ministero dell’Ambiente, che, chiamato a copianificare con le Regioni e il Ministero dei Beni Culturali sul paesaggio, può pretendere di tutelare e di recuperare, contestualmente ai paesaggi eccellenti, anche paesaggi naturali degradati, paesaggi posturbani, paesaggi ex rurali , paesaggi su cui si è abbattuto in questi anni tutto il peggio del modello di produzione e di consumo. In questo senso stiamo lavorando ad una serie di iniziative di tutela del paesaggio “minore” (progetti di ripristino di lame e tratturi, recupero di inghiottitoi, neviere, cisterne, estensione del parco delle gravine, requisizione delle aree militari dismesse) . Fra queste particolarmente cara è quella legata al progetto “Mediterraneo ideale” che prevede il recupero di cinque fari (ad Otranto, Genova, Tunisi, Gibilterra, Alessandria d’Egitto) da destinare a Musei dell’amicizia e dell’ethos mediterraneo. E’ un progetto internazionale che però guarda all’Italia, per fornire un modello alternativo alla destinazione d’uso prevista dall’Agenzia del demanio per 200 fari italiani che, pur senza concessioni di proprietà ai privati, diventerebbero alberghi o centri di ristorazione.<br /><br />3. Il paesaggio agrario .<br />Nel “paesaggio minore” possiamo classificare anche il paesaggio agrario, che ricopriva fino a poco tempo fa gran parte del territorio italiano. Esso è infatti ugualmente negletto. La perdita della biodiversità e della magnifica complessità del giardino italiano è dovuta al fatto che il paesaggio rurale si è drammaticamente semplificato: un fenomeno causato dal massiccio procedere dell’agricoltura industriale che, imponendo coltivazioni specializzate (monoculture: grano, mais, ed ora soia, colza e girasole per fare il biodiesel) , ha scarnificato il mosaico, riducendo le culture promiscue, e quella varietà di colori, di profili, di vegetazioni che avevano reso suggestivo tutto il palinsesto.<br />L’importanza del paesaggio agrario era stata sottolineata già nella visione di Concetto Marchesi, e dei costituenti che seguirono il dibattito sull’art. 9 (Emilio Lussu, Tristano Codignola, Palmiro Togliatti soprattutto). Una visione in cui c’era, oltre la difesa, pur fondamentale, dei valori artistici e culturali come fattori civili e identitari, il tentativo di recupero della storia delle “genti vive”, un riconoscimento di valore e di riscatto fatto al popolo, soprattutto al popolo contadino, al suo ingegno, alle sue conoscenze, alla sua fatica. Alle spalle la lezione di Emilio Sereni ma anche i libri di Pavese e Vittorini: storie di uomini che conversavano con i luoghi, con un paesaggio da cui emergeva non solo il genio eccellente, ma il genio diffuso, l’intelligenza nazional – popolare, la capacità inventiva del lavoro.<br />Non c’è dubbio – scrive Piero Bevilacqua che , fra l’altro, ci sollecita a dare vita ad un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano, una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Belpaese – che l’unicità del miracolo italiano sia in gran parte legata alla complessità del paesaggio rurale italiano. “Alla varietà incomparabile degli habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno - dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante varietà di climi, di morfologie, di suoli – si è aggiunta “la molteplicità e stratificazione delle impronte che tante e diverse civiltà hanno lasciato su questa ricchezza biologica”. Ad un “patrimonio incomparabile di piante, di colori, di tipi di vegetazione, si sono sovrapposte, esaltandolo, una varietà di culture, la complessità storica: Greci, Etruschi, Romani, Arabi che vi hanno impresso una impronta ecologica incomparabile fornendo un contributo così ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e recinzioni della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti sparsi, incastonati negli habitat più diversi. Manufatti che hanno un valore artistico speciale, una genialità edificatoria incomparabile: briglie romane, acquedotti, ponti, canali, cisterne, fontane, pozzi; e la stessa architettura rurale, poi lame, canali, gravine, mulini, frantoi, stalle, muretti a secco, terrazzamenti. E le malghe in legno e pietra, ricovero per uomini e animali. E poi le ville e le cascine, piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate a volte di mura di cinta, e le masserie” dove ancora sopravvivono i terrazzamenti e i muretti secco; non solo veri e propri musei dell’agricoltura a cielo aperto , che testimoniano un’età straordinaria del lavoro contadino, ma anche monumenti di una civiltà della natura, se è consentito l’ossimoro, una civiltà capace di usare l’artificio non in opposizione ma in sintonia e in equilibrio con i cicli naturali, gli elementi naturali, i tempi naturali.<br />Questa civiltà (penso alla civiltà contadina ma anche alla civiltà rupestre) giace ormai allo stremo. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale, dopo decenni di PAC che ha reso esasperata la pressione produttiva del suolo, dopo sempre più intensi dissodamenti di boschi e pascoli, di inquinamenti di pesticidi e concimi, di iperconsumo di acqua, essa appare mutilata non solo nei suoi paesaggi, ma nei suoi uomini e nella sua cultura. I contadini – considerati “residuati della Storia”, figure arcaiche destinate a scomparire con il progredire dello sviluppo e della modernità - non esistono quasi più, trasformati in “imprenditori agricoli”, direttamente collegati al mercato mondiale e votati alla fatalità di una crescita monoculturale e quantitativa. Così come non esistono più i loro valori, il loro mondo di relazioni. Come ci insegna Luigi Lombardi Satriani, la perdità della biodiversità della flora e della fauna qui come non mai anticipa e precede una perdità sociale e antropologica, e sostiene il venir meno del sentimento di comunità. Una nuova questione meridionale avanza, quella che vede in primo luogo l’anomia, la disgregazione sociale e poi la colonizzazione culturale, la perdita di una lingua propria, di propri miti, della propria diversità. Mentre le bambine si chiamano tutte Deborah, Roxana e Samantha, le nonne muoiono o smettono di raccontar le fiabe, grandi narrazioni del genius loci.<br />Di fronte a questa catastrofe il governo democratico non può trovare scorciatoie. Certo è bene praticare una serie di strade che limitino nell’immediato la sparizione del paesaggio agrario. Per esempio la istituzione sul territorio nazionale di Ecomusei con l’intento di conservare e valorizzare la complessità delle testimonianze materiali e immateriali del mondo contadino e capaci di riattivare la complessa rete di relazioni che caratterizzano una data comunità, per la valorizzazione delle tradizioni e dei saperi locali, per promuovere uno sviluppo autocentrato e locale (importanti sono, in questo senso, le due leggi approvate dalla Regione Piemonte (legge 31 del 1995) e dalla Regione Friuli (legge 148 del 2006). O anche la realizzazione di parchi agricoli multifunzionali che consentono di attivare finanziamenti con fonti multisettoriali e aiuti tecnici per le diverse funzioni di produzione di beni e servizi pubblici da parte degli agricoltori. Importante è anche la piena applicazione della Convenzione di Kiev sugli incentivi alle aree agricole ad alto valore naturalistico. E infine è importante la diffusione di una politica di prodotto che sostenga un mercato di qualità, biologico, capace di collegare il prodotto al contesto (gli inglesi che bevono il Chianti, bevono anche l’immagine di quelle terre).<br />Ma è soprattutto ad un rilancio complessivo dell’agricoltura che si deve mirare, intendendola come relazione complessa fra natura e società che riguarda sia la sfera della produttività economica che quella della ricchezza ecologica ed antropologica. Come ripete la Federazione dei Paysans Travailleurs, che ha avviato in Francia la riflessione sulla possibilità di realizzare nelle società moderne una agricoltura attenta al pianeta e agli esseri umani, l’attività agricola esprime un sistema di tecniche e di relazioni che per lungo tempo hanno convissuto con la natura in maniera più saggia dell’umanità contemporanea. Sono tecniche non desuete e non destinate alla museificazione – come sa Pietro Laureano, architetto degli archetipi che sta attualmente lavorando ad un Atlante delle conoscenze tradizionali commissionato dall’UNESCO – , tecniche tradizionali legate alle conoscenze più antiche delle comunità, ai materiali del posto, a sistemi di costruzione, di risparmio idrico, energetico, di suolo che possono far invidia a tecnologie sofisticate e che quindi hanno una carica assolutamente futuribile. Ne abbiamo avuto prova patrocinando il recupero di una cisterna a tetto (ripristinata a Matera nel 2006 grazie al lavoro volontario di una ventina di operai) che ricrea un sistema di raccolta e conservazione delle acque superficiali una volta assai diffuso nelle masserie della Murgia e ancora oggi assai esemplare: un intervento che si colloca in un progetto europeo di più ampio respiro scientifico – il progetto Shaduf, realizzato da Ipogea – che ha l’obiettivo di studiare e riattualizzare tutti i sistemi di raccolta d’acqua in tutta l’area mediterranea, attraverso l’utilizzo dei saperi tradizionali .<br />Il rilancio dell’agricoltura – di una agricoltura ecologica – prevede anche il rilancio di un’etica. La terra, come l’acqua e come l’energia, appartiene infatti a quei “beni comuni” che sono patrimonio dell’intera umanità, anzi dell’intera vita. Per questo abbiamo istituito presso questo Sottosegretariato, un gruppo di lavoro capace di elaborare una nuova legge di tutela degli usi civici, che si impegnasse a mantenere questa forma originale di possesso della terra affidandola alla comunità custode. E’ questa una prassi nata in epoca medioevale che prevedeva per la popolazione la possibilità consuetudinaria di trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque e che ha trovato configurazione giuridica in una Legge del 16 giugno 1927 (legge n. 1766) che censiva e stabiliva in qualche modo i diritti di “proprietà collettiva” al fine di consentire una coerenza con il regime di proprietà privata. Oggi questa legge va decisamente aggiornata sia alla luce del nuovo dibattito sul possedere – il “bene comune” - , sia nei criteri di gestione e nell’allargamento delle forme di partecipazione, sia nella tutela ambientale (si tratta per lo più di zone montane, veri e propri patrimoni di biodiversità), sia nelle modalità di contrasto dei processi in atto di alienazione e di speculazione.<br /><br />Il paesaggio vuoto.<br />Il grande antropologo Ernesto De Martino ne La fine del mondo racconta di quando, durante un viaggio in Calabria nei pressi di Morcellinaria, chiese ad un giovane contadino di indicargli la strada provinciale che aveva smarrito. Il giovane gentilmente lo accompagnò per un tratto in macchina fuori dal paese ma, man mano che la macchina si allontanava e che aumentava la distanza dalle ultime case, cominciò a girare frequentemente la testa all’indietro e ad avere veri e propri attacchi di panico. Interrogato da De Martino rispondeva di essere rimasto smarrito dal non vedere più il campanile di Morcellinaria. Una vera e propria “crisi della presenza”, l’angoscia terribile (angoscia territoriale, la chiama De Martino) di chi, avendo perso i propri punti di riferimento, rischia la “fine del mondo”, l’apocalisse culturale, il non-essere-più dell’identità .<br />L’episodio rimanda ancora al paesaggio visto però questa volta in un aspetto desueto, come sostegno psicologico. Esso assume il valore che Marc Augè attribuisce al “luogo”, uno spazio che non è mai un contenitore, un mero esterno fisico, e nemmeno è più una rappresentazione mentale, ma una componente del benessere psichico e affettivo, la garanzia di una “ecologia dell’Io”. L’uomo se lo porta addosso come una specie di placenta invisibile anche quando è nomade, anche quando parte o fugge via: il beduino del deserto, per esempio, che ad ogni nuovo arrivo monta la tenda e la ricopre di tappeti istoriati della casa di provenienza (da qui, fra l’altro, nasce la credenza del “tappeto volante”). E così anche la nonna immigrata nella metropoli del Nord che si affretta ad allestire al suo arrivo un reliquiario di ninnoli, fotografie e icone, simboli del Paese da cui è stata sradicata.<br />Il luogo dunque come uno spazio in cui si conversa con il territorio trovando lì dei legami, il senso di una appartenenza, il valore della radice. Ma anche luogo come spazio relazionale dove si riscopre un senso e una cittadinanza. Luogo come può essere, per esempio, il paese natio, scrigno magico in cui vengono conservati i dolci legami dell’infanzia gli odori della cucina della nonna, le braccia della madre e la sua lingua. Luogo come “il posto delle fragole”, il quartiere che ospitò i giochi, la panchina dei baci e dei primi amori. Luogo come l’alberghetto dove un nuovo meticciato racconta storie sfuggite al naufragio. Luogo come il sito della divinità, delle potenze protettrici, dei buoni morti; luogo come il posto “santo” da lasciare incontaminato perché, come nel bellissimo film di Herzog, possano ancora andare a riposare gli antichi dei, le “Formiche Verdi”.<br />Tale luogo per adempiere al suo compito non deve essere necessariamente bello, né particolarmente carico di arte o di storia. Meglio se ha il mare o la foresta come sfondo, ma anche se è solo una pietra o una fontana o un dirupo, lo stesso, in qualche modo, deve essere tutelato perché eliminarlo o modificarlo bruscamente significherebbe offendere l’Io, interrompere una conversazione ingenerando l’angoscia che può portare ad una frustrazione se non proprio, al limite, ad una catastrofe. Anche il cambiamento perciò deve contenere elementi di riconoscimento, nel quale l’individuo, come dice Patrizia Resta, si percepisca sempre come parte in gioco. Ogni trasformazione cioè deve essere leggibile e saper mantenere – al di là dell’invenzione sulle forme, i materiali, le dimensioni – alcune costanti antropologiche che rinviano ai bisogni fondamentali dell’abitare: il rapporto con la Natura, il simbolismo del centro, la qualità comune dello spazio ludico, religioso, comunicativo, la presenza del vuoto. Rivendichiamo l’importanza del vuoto. Continuiamo a riempirlo in una sorta di horror vacui che ritiene che ciò che non è costruito è un non-senso e che spinge ad una volontà di urbanizzazione che deve essere infinita. Dietro c’è sicuramente l’affare ma anche il pregiudizio antropocentrico.<br />L’Homo riempitore e fabbro va fermato, va curata questa sua pulsione - una vera e propria “pulsione di morte” - che giudica “depresse” o inutili tutte quelle aree che non partecipano all’economicismo e alla funzionalità dello sviluppo. E’ una pulsione che non solo stravolge il simbolismo dei luoghi ma che consente anche la proliferazione di metastasi, di non-luoghi, di spazi senza identità, spazi senza comunità, che si possono solo attraversare. Essi dominano ormai le strade di Italia, dipanandosi in un reticolo di centri commerciali (480 solo nel 2006), capannoni industriali (7550 sempre nel 2006) , pale eoliche (2575 sempre nel 2006). Per non parlare poi dei tracciati dell’alta velocità, di linee elettriche, svincoli, aree di rifornimento, parcheggi, terreni vaghi simili a discariche: scenari all’americana, figli di una “monocultura paesaggistica” quasi sempre violentemente estranea alla configurazione dei territori attraversati, priva delle memorie artistiche, delle culture, degli ecosistemi e carica invece delle immagini seriali costantemente veicolate dalla televisione e dai films (immagini che per questo finiscono di imporsi quasi come una consuetudine, (come accade già, avverte Mario Salomone, “nell’informe metastasi della pianura lombardo-veneta: un disordinato susseguirsi di capannoni, autostrade, centri commerciali, villette di un incipiente urban sprawl).<br />Scenari monotoni e ripetitivi di costruzioni che non solo affollano le città come non mai (mille sono stati i casi di aggressione edificatoria contro cui siamo intervenuti: da Savona, dove un architetto “surmoderno” vuole costruire un megagrattacielo sullo scoglio votivo della Madonnetta, a Otranto, dove la marina militare vuole seppellire sotto un pugno di villette il Faro di Punta Palascia); ma che riempiono quel che rimane degli spazi aperti, degli spazi verdi, di quelli che appunto ancora rimanevano “vuoti”. Negli ultimi quindici anni, secondo dati ISTAT riportati in una denuncia del Comitato italiano per la bellezza, sono stati divorati dal cemento oltre 3 milioni 663 mila ettari di verde - duecentoquarantamila ettari ogni anno - una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo, con un consumo del territorio senza uguali in Europa. La minaccia prima viene dalle abitazioni private (331.000, nel 2005), tutte costose e in zone pregiate, seconde e terze case che non hanno diminuito affatto l’emergenza abitativa e che, nel segno di quella speculazione che ora si chiama “valorizzazione immobiliare”, hanno offeso non più solo il paesaggio costiero ma anche quello interno (valli, colline, vigneti: come a Pienza, come a Monticchiello).<br />Qui non fa testo la “questione meridionale”: è la Liguria (già stravolta da porti e porticcioli), la Regione che più ha consumato in edilizia e continua un assalto al territorio che, per la prima volta, è del tutto legale. Perché, se è vero che questa fase di intensa edificazione è stata aperta e consentita da una stagione di abusi e condoni, da una deregulation che ha stravolto e azzerato ogni legge di tutela ambientale, urbanistica, demaniale, da una “cartolarizzazione” eretta a sistema (i frutti nefasti del Governo precedente), è anche vero che qualcosa non funziona nella normativa ordinaria. A cominciare dai Comuni che, forti di una Delega alla tutela al paesaggio accordata loro in alcune Regioni – che, a loro volta, avevano visto attribuirsi la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali, nonché la tutela dell’ambiente dal DPR 616 del 1977 – si sono spinti a cercare nuovi introiti di urbanizzazione dilatando i permessi di lottizzazione e creando così una vera e propria emergenza nazionale<br />Nel denunciare questo sacco senza precedenti, il Ministro Rutelli ha preparato una rivisitazione del Codice dei Beni Culturali (DLgs 42/2004), proprio nella parte che riguarda sia il patrimonio culturale che i beni paesaggistici (le ultime modifiche sono state approvate qualche settimana fa). Forte anche di una sentenza della Corte Costituzionale (la 367, del 7 novembre 2006), che ribadisce che “il paesaggio, considerato un valore primario e assoluto, rientra nella competenza prevalente dello Stato”, la nuova stesura rivendica una maggiore presenza dello Stato nella gestione del paesaggio sottoposto a tutela esercitandola in due maniere: quella (cara a Salvatore Settis) della tradizionale procedura vincolistica che affida un potere vincolante ai pareri dei Sovrintendenti su pianificazione, autorizzazioni e controlli; e quella invece più nuova e forse efficace (cara a Edoardo Salzano) che sollecita le Regioni ad attivare intese di copianificazione con le Amministrazioni dello Stato (il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero dell’Ambiente), al fine di redigere Piani paesaggistici in cui vengano precisati con ampiezza i contenuti e gli strumenti della tutela e in cui vengano coinvolte non solo le istituzioni ma le popolazioni.<br />Il fine dei Piani Paesaggistici – rispetto ai quali stiamo elaborando delle Linee Guida generali - è quello di una “tutela dinamica” che parta appunto da quella coscienza di luogo messa in campo dalla Convenzione europea: un percorso che implica responsabilità individuale, gusto estetico, processi partecipativi, sentimenti identitari, valori di comunità ed una educazione ambientale che avvenga sia nella scuola che “all’aria aperta” (al proposito si rimanda al testo “Alfabeti ecologici” pubblicato su Carta , n. 29 dell’agosto 2007).</span></div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-4085394637874498392008-02-05T12:11:00.000+01:002008-02-05T12:14:02.199+01:00CONSIDERO VALORE - ERRI DE LUCA - <object width="325" height="255"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/03k9su2y58E&rel=1"></param><param name="wmode" value="transparent"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/03k9su2y58E&rel=1" type="application/x-shockwave-flash" wmode="transparent" width="325" height="255"></embed></object>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-55878792855949672602008-01-21T11:46:00.001+01:002008-03-08T15:34:39.526+01:00DISCORSO ALLA SAPIENZA DI BENEDETTO XVI<div align="justify">Allego, per gli interessati, il testo dell'intervento predisposto da Benedetto XVI per l'inaugurazione dell'anno accademico all'università "La Sapienza" di Roma.<br />Un discorso "alto", filosoficamente stimolante, con il quale è stato davvero un peccato non volersi confrontare.<br />Se non apprezzo per nulla l'azione potico-religiosa di questo papato, non mi riconosco neppure in quel fondamentalismo laicista che, peraltro, parla ancora il linguaggio positivista di uno scientismo che, di fatto, già all'inizio del secolo scorso, avvertiva drammaticamente la crisi dei propri fondamenti.<span class="fullpost"> Se forse è stata poco opportuna la circostanza dell'inaugurazione dell'Anno accademico per invitare il papa a parlare, tuttavia trovo anche grottesco rifiutarsi di ascoltare preventivamente e negare la parola, tanto più se questo avviene all'interno di un'istituzione come quella universitaria, nata proprio dall'esigenza di una parola libera. Quando anche l'Università, o sue componenti, si comportano come una Chiesa, allora, davvero bisogna allarmarsi. Il vero vulnus è quello che l'Università ha arrecato a se stessa.<br />Non c'è nulla di più fuorviante, allora, che appiattire lo scontro - che è in atto nel nostro paese - tra fondamentalismo laicista e scientista e fondamentalismo cattolico. Al discorso del papa - un discorso filosofico da parte a parte - è la filosofia che è chiamata a rispondere.<br />Se la natura di questo scontro è politica ed investe i rapporti tra politica e religione in uno stato laico e moderno, ciò non ci esime dall'andare ancora più a fondo nei contenuti filosofici di questo documento davvero emblematico di questo papato, per cercare di comprendere innanzitutto il significato per nulla scontato delle parole attraverso le quale si esprime.<br />Bisogna dunque domandarsi:<br /><br />1) quale tipo di fede ha in mente questo papa? in che rapporto stanno, per lui, fede e speranza, da un lato e, dall'altro, fede e ragione? (cfr. a tale proposito l'ultimo documento, anch'esso assai significativo, sulla speranza)<br /><br />2) ma, soprattutto, che cosa intende questo papa per ragione e per verità? Non vi è dubbio circa l'accentuato razionalismo di questo papa, ma come definire quella ratio cui fanno riferimento tutti i suoi discorsi? A quale idea di ragione si riferisce? Lo stesso discorso vale per il concetto di verità, che anche in questo scritto viene riaffermato con forza.<br /><br />Insomma, ci troviamo di fronte ad un compito filosofico, prima ancora che politico o spirituale, ed è proprio la razionalità filosofica espressa dal teologo Joseph Ratzinger che andrebbe innanzitutto decostruita con gli strumenti della filosofia.<br />Due sono le lingue fondamentali di questo papato: il latino, riportato in auge anche nella liturgia, lingua sacra e, al contempo, lingua dell'Impero, lingua civile, lingua curiale della politica (e già qui è presente un poderoso paradosso nell'assunzione, come lingua sacra, entro la quale si dovrebbero dire la "critica" e il distacco dal mondo, della lingua del potere mondano per eccellenza, il latino dell'impero romano, segno, certo, di una vocazione universale, ma anche di una rischiosa commistione, che non abbandonerà più la Chiesa cattolica, con il teologico-politico) e il greco della filosofia, tradotto poi nei termini della ratio occidentale.<br />Solo attraverso la decostruzione di questa potente impalcatura sarà possibile un serio confronto con questo papato, con il suo insidioso razionalismo, vero nucleo del suo profondo conservatorismo. Ciò è tanto più necessario sia per far scaturire il rinnovato senso di una fede e di una spiritualità di cui oggi da molte parte si avverte l'insopprimibile bisogno, sia per lasciare spazio a forme di pensiero che questi modelli di razionalità e di verità lungo tutto il Novecento hanno con grande rigore provveduto a decostruire.<br /><br />prof. Caterina Resta<br />Dipartimento di Filosofia<br />Facoltà di Lettere e Filosofia<br />Università di Messina<br /><br /><strong>Ecco il testo integrale dell'allocuzione che Papa Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare all'universitá di Roma «La Sapienza» subito dopo l'inaugurazione dell'anno accademico, pubblicato dalla Santa Sede.</strong><br /><br /><em>È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.<br /><br />Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".<br /><br />Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.<br /><br />Ritorno alla mia domanda di partenza: che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità.<br /><br />Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato.<br /><br />Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.<br /><br />Ma ora ci si deve chiedere: e che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.<br /><br />Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.<br /><br />Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.<br /><br />Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista.<br /><br />Ma qui emerge subito la domanda: come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica.<br /><br />I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.<br /><br />Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.<br /><br />Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze.<br /><br />Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò.<br /><br />Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.<br /><br />Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito.<br /><br />Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati.<br /><br />Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande.<br /><br />Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.<br /><br />Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.</em><br /><strong>Città del Vaticano, 17 gennaio 2008<br /><br />Benedictus XVI<br />16 gennaio 2008</strong></span></div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-27218240260811672842008-01-21T10:59:00.000+01:002008-01-21T11:14:35.997+01:00Diossina, inceneritori... e la vita va in fumoEcco il biutiful cauntri<br /><br /><object width="325" height="255"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/TkPQ31d6U7k&rel=1"></param><param name="wmode" value="transparent"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/TkPQ31d6U7k&rel=1" type="application/x-shockwave-flash" wmode="transparent" width="325" height="255"></embed></object><span class="fullpost"><br /><br />Cosa succede ai nostri rifiuti?<br /><br /><object width="325" height="255"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/I12FwO1XqsU&rel=1"></param><param name="wmode" value="transparent"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/I12FwO1XqsU&rel=1" type="application/x-shockwave-flash" wmode="transparent" width="325" height="255"></embed></object><br /><br />La verità nascosta sugli inceneritori<br /><br /><object width="325" height="255"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/iKRNIBaS-gM&rel=1"></param><param name="wmode" value="transparent"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/iKRNIBaS-gM&rel=1" type="application/x-shockwave-flash" wmode="transparent" width="325" height="255"></embed></object></span>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-74489780274311702502008-01-19T15:52:00.000+01:002008-01-19T16:21:07.161+01:001ª CONFERENZA PROVINCIALE PER IL PAESAGGIO<strong>1ª CONFERENZA PROVINCIALE PER IL PAESAGGIO <br /><br />IL PROGETTO PAESAGGIO BIELLESE</strong><br /><em>Un’attuazione della Convenzione europea del paesaggio <br />Provincia di Biella, Sala Becchia, venerdì 25 gennaio 2008 </em><br /><br /> Ore…9:30 <strong>Introduzioni </strong><br /><strong>Sergio Scaramal </strong><br /><em>Presidente Provincia di Biella </em><br /><strong>Sergio Conti</strong> <br /><em>Assessore alle politiche territoriali - Regione Piemonte </em><br /><strong>Vittorio Barazzotto </strong><br /><em>Sindaco Città di Biella</em><span class="fullpost"> <br /><br /><br /> Ore 10:00 <strong>L’attuazione nel Biellese della Convenzione europea del paesaggio </strong><br /><strong>presiede Davide Bazzini</strong><br /><em>Assessore all’ambiente e all’innovazione tecnologica - Provincia di Biella <br />Coordinatore assessorati per il paesaggio - Provincia di Biella </em><br /><br /><strong>Riccardo Priore</strong><br /><em>Funzionario Consiglio d’Europa <br />Direttore RECEP - Rete europea degli enti locali e regionali <br />per l’attuazione della Convenzione europea del paesaggio </em><br /><strong>La Convenzione europea del paesaggio <br />come “denominatore” del Progetto Paesaggio Biellese </strong><br /><br /><strong>Damiano Gallà e Giuseppe Pidello </strong><br /><em>Rappresentanti Gruppo tecnico Progetto Paesaggio Biellese <br />Temi e percorsi del Progetto Paesaggio Biellese: <br />un’attuazione degli articoli 5 e 6 della Convenzione europea del paesaggio </em><br /><br /> Ore 11:00 <strong>Pausa caffè </strong><br /><br /> Ore 11:30 <strong>Dibattito pubblico sul Progetto Paesaggio Biellese <br />modera Davide Bazzini </strong><br /><br /> Ore 13:00 <strong>Buffet </strong> <br /><br /> Ore 14:30 <strong>Esperienze italiane ed europee di attuazione della Convenzione europea del paesaggio </strong><br /><br /><strong>Roberto Gambino</strong><br /><em>Ordinario di pianificazione territoriale - Politecnico di Torino <br />Coordinatore Piano Paesaggistico - Regione Piemonte </em><br /><br /><strong>Massimo Rossi</strong> <br /><em>Presidente Provincia di Ascoli Piceno <br />Vice Presidente Unione Province d’Italia </em><br /><br /><strong>Bas Pedroli </strong><br /><em>Ricercatore - Alterra Wageningen UR <br />Coordinatore CIVILSCAPE - NGO’s in support of the European landscape convention </em><br /><br /><strong>Francesco Alberti La Marmora </strong><br /><em>Presidente Osservatorio beni culturali e ambientali del Biellese <br />Coordinatore Osservatori del paesaggio del Piemonte </em><br /><br /><strong>Viviana Ferrario </strong><br /><em>IUAV Venezia </em><br /><br /> Ore 16:00 <strong>Apertura delle adesioni al Progetto Paesaggio Biellese e conclusioni </strong><br /><strong>a cura di Davide Bazzini</strong></span>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-69911259092599388232008-01-12T12:38:00.000+01:002008-01-12T12:41:00.094+01:00CONVENZIONE EUROPEA SUL PAESAGGIO E ALFABETI ECOLOGICICONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO E ALFABETI ECOLOGICI<br /> di Angelo Marino<br /><br />1 - UNA SVOLTA EPOCALE – Lo straordinario interesse per i temi della natura e del territorio, indotti soprattutto dalle attuali emergenze ambientali, è un fenomeno di questi ultimi anni che non ha predecenti nella storia della cultura occidentale. È a partire dagli ultimissimi decenni che i temi della natura in generale e dei luoghi del vivere in particolare hanno subito un’improvvisa quanto imprevista valorizzazione, anche in un’ottica economica. Sotto forma di ecologia e di paesaggismo, di educazione all’ambiente e di filosofia della terra o geofilosofia, i temi della natura e della cultura, identificata quest’ultima con i valori del paesaggio, hanno aperto un capitolo nuovo alla riflessione contemporanea e ridisegnato un nuovo orizzonte concettuale al sapere tradizionale e agli specifici ambiti disciplinari. La loro rilevanza in termini di sostenibilità e di tenuta dei sistemi di supporto alla vita ha determinato una straordinaria convergenza di studi sulle scienze della terra e uno «spostamento del concetto di paesaggio nello spazio fisiognomico» (Luisa Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p. 161. Da qui a seguire, tutte le citazioni contrassegnate dai numeri di pagina sono tratte da questo libro), entrambi di portata epistemologica.<span class="fullpost"><br />La necessità di ancorare il senso del nostro esistere e ogni possibilità di futuro, nostro e degli altri sistemi viventi, sui valori certi e condivisi della Terra come «orizzonte imprescindibile di senso» (p. 10), persino di rifondare su di essa i grandi archetipi (il bene, il male), sta determinando un radicale ripensamento dei luoghi e dei modi del nostro vivere e del nostro abitare. Si potrebbe parlare, se l’immagine non fosse abusata, di una nuova “rivoluzione copernicana”, di portata analoga a quella inaugurata dalla nascita della scienza moderna e dalla filosofia illuministica e kantiana: una vera e propria svolta epocale, destinata ad avere, a nostro avviso, effetti di così lunga e vasta portata da determinare radicali cambiamenti negli statuti e nei contenuti dei saperi tradizionali e un ri-orientamento altrettanto radicale del pensiero riflessivo. <br /><br />2 - IL NUOVO CONCETTO DI PAESAGGIO – Ad essere mutata è l’idea stessa di “paesaggio”, tradizionalmente identificata con quella di bellezza panoramica: solo in questi ultimi decenni essa è passata «da una concezione soggettivistico-rappresentativa, in cui l’individuo appare come detentore solitario di percezioni e sensazioni relative al paesaggio e manifesta un gusto incomunicabile e umbratile, alla condivisione di un luogo di vita e di cultura» (p. 8-9). La Convenzione europea del paesaggio, di cui diremo in seguito, rivoluziona questa vecchia “convenzione” o «contrattualità solitaria», come la definisce Luisa Bonesio, che abbiamo ereditato dal passato, sostituendola con un’altra forma di contrattualità: quella della «partecipazione e corresponsabilità democratica nella cura e nella progettazione del luogo, nella ri-assunzione di una consapevole produzione sociale e simbolica del paesaggio» (p. 131). Questo passaggio è fondamentale. Come scrive Alberto Magnaghi, fondatore della “Scuola territorialista” in architettura, «i caratteri peculiari, che definiscono l’identità di un luogo, rappresentano le risorse potenziali di uno sviluppo originale e durevole, “trattando” in modo integrato l’insieme delle attività che concorrono a definirne i caratteri: produttive, insediative, ambientali, culturali, sociali» (p. 180).<br />«Finalmente, scrive la Bonesio, si riconosce al paesaggio un proprio spessore ontologico, e si apre la possibilità di considerarlo, in quanto totalità espressiva, come un ambito di interpretazione. L’aspetto estetico del paesaggio [nel quale la precedente “convenzione” faceva consistere il valore e lo stesso significato di paesaggio] è la forma in cui si trasfigurano innumerevoli dinamiche di formazione [i modi di coltivare e di produrre, l’appropriazione e la ripartizione dei terreni, la trama viatoria, le modalità e le forme costruttive, le ritualizzazioni degli spazi, ecc.] e geomorfologiche. In un certo senso, esso è lo strato più superficiale, quello visibile, il quale però rimanda ai vari gradi ed estensioni di invisibilità (o non immediata visibilità), di ordine naturale, culturale, storico e simbolico» (p. 161).<br />I rischi connessi al tipo di sviluppo innescato dalla rivoluzione scientifica furono preavvertiti assai per tempo. Come scrive la Bonesio, «la questione del paesaggio [ma lo stesso discorso vale anche per l’ambiente] si è imposta alla cultura europea a livello di massa a partire dagli inizi dell’epoca industriale, quando si cominciò a percepire che ciò che era rimasto stabile per secoli iniziava a muoversi e a sgretolarsi, e che i paesaggi appena “scoperti” erano già in via di cancellarsi […]» (p. 206).<br />I cambiamenti climatici hanno fatto crescere questa consapevolezza. Al presente essa ratifica la fine di un mito, decreta il duplice fallimento della cultura prometeica occidentale: quello di considerare la natura come una fonte inesauribile, e quindi illimitata, di materie prime da prelevare (e il nostro pianeta in grado di sopportare tutto, dagli esperimenti atomici nell’atmosfera al prelievo illimitato di fonti di energia non rinnovabili); e quello di soggiogare l’intero spazio alla logica astrattamente omologante della razionalità modernista e fordista e di cancellare così dalla faccia del pianeta le miriadi di «biografie territoriali» con la loro straordinaria vitalità, diversità e ricchezza. <br /><br />3 - LE COLPE DELL’OCCIDENTE – La colpa storica dell’Occidente non è solo quella di avere sperperato immensi patrimoni di conoscenza e di saggezza “popolare”, perseverando su questi errori e portandoli fino alle estreme conseguenze, ma anche (o forse soprattutto) quella di averli esportati come modelli seriali di comportamenti e stili di vita individuali e collettivi nel resto del mondo. Il modello occidentale si è infatti imposto dovunque, non solo a livello culturale ed esistenziale, ma anche come modello tecnologico ed economico, vivendo “a spese del futuro” (Vandana Shiva) e considerando il pianeta una fonte di risorse inesauribili. <br />C’è dunque un immenso lavoro da fare. Il recupero della saggezza premoderna non può che essere lento e graduale, ma improcrastinabile. È una strada segnata: la sola in grado di ristabilire il giusto rapporto uomo-natura non può che ri-partire dall’Occidente, che per primo l’ha smarrita spezzando quell’antica alleanza e operando quella «vera e propria secessione dalla terra e dai luoghi» (p. 163), che ha contrassegnato la modernità. Il ristabilimento del corretto rapporto con la natura dovrà essere preceduto, dove c’è bisogno, dalla riappropriazione dei luoghi di memoria da parte delle comunità “espropriate”: come scrive la Bonesio, l’«attività di ricostituzione dei fili interrotti della memoria locale e territoriale, [non può] non passare attraverso l’educazione, la trasmissione di consapevolezza e di saperi, la condivisione del valore fondativo dell’identità paesaggistica rispetto alla possibilità di una comunità stabile, esperta delle possibilità e dei limiti consentiti dal luogo, in grado di costruire sempre più finemente la sua identità culturale a partire dalla sua appartenenza al luogo condiviso che la ospita» (p. 203).<br />Ambiente e paesaggio, natura e cultura, si situano, come meglio vedremo fra poco, su piani concettuali diversi, ma all’interno dello stesso orizzonte di senso, essendo entrambe contrassegnate, ovunque e in ogni epoca storica, dalla presenza o dall’azione diretta e indiretta dell’uomo: l’una in quanto «gioca il ruolo di sostrato, interlocutrice, alleata o nemica, ma sempre nella preliminare apertura di senso propria ad ogni civiltà (come “paesaggio materno” della cultura, secondo Spengler)» (p. 160); l’altra in quanto «prodotto della storia insediativa delle comunità umane» (D. Luciani). <br /><br />4 - DUE DOCUMENTI DI ALTO PROFILO – Per contribuire a diffondere la coscienza ecologica e paesaggistica, ma anche per fare quella chiarezza di cui oggi c’è assoluto bisogno su entrambi i fronti, sono stati recentemente prodotti due documenti di straordinario spessore culturale e ideale, oltre che pedagogico: la Convenzione Europea del Paesaggio, nota anche come Convenzione di Firenze, promossa dal Consiglio d’Europa e ratificata nell’ottobre del 2000 da un gran numero di paesi europei, e gli Alfabeti Ecologici, un testo elaborato di recente da un gruppo di «saggi» costituito dal Sottosegretario di Stato Laura Marchetti presso il Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare.<br />Ma prima di entrare nel merito dei due documenti, e per meglio focalizzare i loro intenti, vanno dissipati parecchi equivoci che continuano ad avvolgere i concetti di natura e di paesaggio dicendo subito che sono concetti sostanzialmente diversi, anche se non antitetici. E questo per evitare di ricadere nelle stesse aporie e carenze teoretiche che sono all’origine di un lungo fraintendimento, non solo a livello di opinione pubblica, ma anche epistemologico, prima ancora che legislativo. <br />Il libro di Luisa Bonesio, che abbiamo citato all’inizio, è forse lo strumento critico meno aggirabile per fare piena chiarezza sulla genealogia e sugli estesi effetti di questo lungo equivoco, e per consentirci di tematizzare in modo corretto il concetto di paesaggio all’interno della questione ecologica. <br /><br />5 - UNA FONDAMENTALE DISTINZIONE CONCETTUALE – Il paesaggio è un luogo di memoria geograficamente circoscritto, ma al tempo stesso un’apertura al mondo. La natura è invece «un insieme di oggetti, costruzioni, manufatti alla cui comprensione è rilevante la dimensione storica, ma non la collocazione geografica» (p. 74). Questa fondamentale distinzione può essere declinata in vari altri modi: lo spazio è un concetto di ordine generale e quantitativo, “bianco, astratto e vuoto”; il luogo è un concetto qualitativo e individuato, concreto e relazionale – un sostrato culturale identitario dotato di confini certi. La natura «definisce il quadro all’interno del quale agiscono le possibilità di modellamento paesaggistico» (p. 72); il paesaggio, in quanto forma creata dall’uomo, «ha una struttura di senso e un valore espressivo, le cui differenze permettono di discernere i tratti essenziali delle culture soprattutto in relazione alla natura» (p. 72). La natura è essenzialmente immagine, in essa «si dà l’immediata coincidenza di profondità e superficie di un cristallo» (p. 161); il paesaggio è forma, impronta o conio in cui si esprime, come scrive J. Michelet, una realtà «arricchita ed estesa anche al di là di ciò che si vede con gli occhi» (nota 56 di p. 188): il paessaggio è quindi ciò che, guidati da analogie significative, riusciamo a vedere “con la mente”. La natura è sempre un ambiente, come «un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua e pietre» (p. 64, citaz. da G. Simmel); il paesaggio è una forma culturale in cui si esprime (e si riconosce) quella che Spengler chiamava «l’anima di una civiltà» (p. 64). La natura è un «palinsesto temporale», una struttura modellata da eventi geologici e meteorologici che trascendono i tempi e le intenzioni dell’uomo; il paesaggio è sempre «la fisionomia di una civiltà» (p. 161). E così di seguito.<br />L’ecologia e la geofilosofia hanno molto contribuito, lo ripetiamo, a riconcettualizzare i temi dell’ambiente e del paesaggio. Crediamo che la definizione di Wilhelm Dilthey relativa alla storia possa essere asssunta anche per il paesaggio, essendo sia l’una che l’altro creazioni dell’uomo: il paesaggio, come la storia, è il luogo in cui si deposita nel tempo tutto ciò che, di razionale e non, le generazioni degli uomini hanno prodotto mettendo a frutto la loro intelligenza, il loro lavoro, la loro volontà, i loro sentimenti, la loro immaginazione. Pur facendo proprie le argomentazioni di Kant, Dilthey va oltre Kant, a cui rimprovera di avere affidato l’intero compito conoscitivo al solo pensiero razionale «che divide, analizza, separa, mentre la vita fluisce e sente». Possiamo anche aggiungere, sulla scia di Dilthey, che, a differenza della natura, alla cui conoscenza si accede attraverso l’esperienza esterna e col metodo della spiegazione (ossia attivando prevalentemente le facoltà razionali, che separano e analizzano), alla conoscenza dei luoghi si accede attivando il metodo della comprensione, che si realizza attraverso l’immedesimazione e la coincidenza interna tra soggetto (uomo) e oggetto (natura). E questo perché il paesaggio è la costruzione lenta e straficata di una comunità: «Come un linguaggio, ha scritto J. B. Jackson, un paesaggio avrà origini oscure, indecifrabili, come un linguaggio è la lenta creazione di tutti gli elementi della società» (p. 162). <br />La ricontestualizzazione dei due termini, paesaggio e natura, si rende necessaria anche perché, se da un lato consente di individuare i caratteri di espressività del primo, in quanto «natura che si è fatta storia» (R. Assunto), dall’altro si presta anche a ri-definire il concetto di natura, per meglio agire razionalmente nella comprensione e gestione dei fenomeni. Ed è grazie a questa distinzione che diventa possibile riconoscere al paesaggio un proprio spessore ontologico. <br />Risale a Herbert Lehmann, ricorda la Bonesio, «l’accoglimento, nella disciplina geografica, dell’idea di espressività del paesaggio e il tentativo pionieristico di avviare un’interpretazione tra le prospettive della filosofia e della geografia, delineando il progetto di un’ermeneutica del paesaggio che si sta dispiegando nelle sue potenzialità teoriche solo ai nostri giorni» (p. 99). Ma va riconosciuto all’italiano Rosario Assunto, ricorda ancora la Bonesio, il merito di avere svolto «un ruolo unico nel campo della ricerca teorica sul paesaggio del secondo dopoguerra» (p. 99). E lo ha fatto allargando, con la sua monumentale opera, i confini e le impostazioni accademiche di una tradizione del paesaggio assai povera di strumenti teorici e rendendolo definitivamente inassimilabile all’idea di natura o ambiente con cui quasi fino ad oggi continua ad essere confuso.<br /><br />6 - UNA CONFUSIONE DAGLI EFFETTI PARADOSSALI – La perdurante cultura che assimila a tutti i livelli natura e paesaggio, nonché muoversi in sintonia con le attuali spinte centrifughe e universalistiche in direzione della cancellazione dei luoghi di significanza e la «proliferazione metastatica dei nonluoghi» (p. 134), ingenera sul piano epistemologico confusioni dagli effetti a dir poco paradossali: filosofi e storici della cultura, per esempio, continuano ancor oggi a guardare con «gli occhi dell’altroieri» sia l’una che l’altro e, di conseguenza, ad investire di valenza ermeneutica non il paesaggio ma la natura tout court. Questo fino al punto che non pochi di essi continuano a credere, sulle orme di Schelling, che «ciò che noi chiamiamo Natura è un poema di cui la meravigliosa e misteriosa scrittura resta per noi indecifrabile» (p. 35). <br />Sulla scia di siffatti retaggi e suggestioni del passato, che tuttora esercitano un grande fascino, si passa purtroppo agli errori veri e propri, di cui la cultura immessa nei circuiti scolastici costituisce forse il campionario più esteso e meno noto. Nella manualistica scolastica – filosofica, scientifica e letteraria – circolano, infatti, senza trovare significativi ostacoli molte idee che ricalcano più o meno fedelmente gli archetipi di cui sopra: a) la storia vista come totalità che pianifica i tempi e i luoghi, perché s’interessa solo dei grandi avvenimenti legati agli stati-nazione e trascura i microcosmi delle memorie comunitarie, venendo meno in questo modo alla sua «primitiva vocazione educativa»; b) la ragione ridotta a funzione astratta che proietta il mondo nell’«universalità vuota dello spazio newtoniano» (p. 166), considerandolo «un’inerte estensione priva di propria legalità e ordine: quella res extensa cartesianamente intesa come cieca quantità materiale, sottoposta al volere del soggetto pensante e misuratore, dal quale sarà sistematicamente sfruttata, violata e perseguitata al fine di estorcerne, con la violenza, segreti e risorse» (p. 17); o, viceversa, la ragione che vede la natura come un’entità ineffabile e misteriosa o, addirittura, «mitologica e rischiosa»1 (G. Vattimo) – e questo a dispetto delle evidenze scientifiche di questi ultimi decenni, secondo cui di misterioso in natura (beninteso limitatamente al campo dei fenomeni, ossia di ciò che appare) non c’è proprio nulla; c) la tecnologia vista sia come risorsa dell’uomo prometeico capace di addomesticare e razionalizzare la natura secondo i propri fini, sia come panacea di tutti i mali, compresi quelli da essa stessa prodotti, grazie alla quale egli è in grado di riprodurre a suo piacimento gli ambienti naturali – depredati, degradati e resi invivibili – nella serialità illimitata degli spazi virtuali (ancora Vattimo)2; d) l’estetica che vede il paesaggio come «cosa del passato», oggetto di vagheggiamenti nostalgici, o come «meta di svago, fuggevole consolazione estetica e rigenerazione salutistica» e, comunque, «come il fuori dalla fatica quotidiana, il riposo e la gioia della domenica, che trova il suo culmine nel [dipinto] Déjuneur sur l’herbe di Manet» e in quello di Seurat Un dimanche d’été à la Grande-Jatte (p. 164). L’elenco potrebbe continuare a lungo.<br /><br />7 - GLI EFFETTI PIÙ PERNICIOSI – Gli effetti più perniciosi dell’assimilazione del paesaggio alla natura sono riscontrabili nei vari modi in cui quest’ultima viene, tuttora, concepita: come entità selvaggia, secondo il cliché romantico, dalla quale occorre prendere le distanze «temendola come luogo del pericolo, dell’ignoto, del numinoso…» (p. 35); come pura percezione estetica del soggetto contemplante, al quale la tecnologia consente oggi di assumere la collocazione prospettica più idonea (l’aereo, la vetta, lo scorcio panoramico) per meglio goderla come oggetto estetico (ma, al tempo stesso, per tenerla «a distanza di sicurezza»); come entità da soggiogare, proprio per il suo essere altro da noi (per la sua «abissale alterità», p. 34), agli imperativi produttivi dell’economia industriale sotto la spinta faustiana al dominio del mondo; o come oggetto di sfida superomistica, conquista dell’inaccessibile e superamento del limite: in questo caso si scala l’Everest «non per la vista che può offrire, ma per il record che […] consente di raggiungere» (p. 35).<br />Ma ad essere falsata, per effetto del logorato rapporto uomo-natura, è qualsiasi pratica esplorativa (dall’alpinismo, al turismo), che diventa un’attività «dettata in ultima analisi dal bisogno dell’uomo di riconoscere e sottomettere con la propria presenza fisica qualunque angolo, qualunque anfratto, qualunque minima o enorme protuberanza o cavità di questa crosta terrestre su cui siamo chiamati a vivere» (p. 35). Anche le forme del sapere e della cultura tradiscono questa ambiguità di fondo. Come scriveva Ernst Jünger ancora nella prima metà del secolo scorso, «La biblioteca, non è per lui [per l’uomo tecnologico] il luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico. Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più antiche» (p. 35).<br />Ma l’effetto più durevolmente negativo di questi fraintendimenti si ha sul piano epistemologico. In particolare, nel ritardo con cui l’accezione di paesaggio, come luogo simbolico prima ancora che estetico, è stata acquisita dagli studiosi e dal senso comune. A questo proposito scrive la Bonesio: «La riduzione del concetto di paesaggio a quello di ambiente naturale […] ha lasciato il tema del paesaggio in una sorta di terra di nessuno, in un limbo concettuale in cui esso ha finito per essere sempre più identificato esclusivamente con la dimensione umbratile e soggettiva della percezione individuale del sembiante di un luogo, oppure con le salienze, i punti di esemplarità appartenenti al museo immaginario della cultura: le colline toscane, le Dolomiti, la campagna romana, la laguna di Venezia, il golfo di Napoli…» (p. 74). <br />Le battaglie ecologiste hanno preso le mosse da questo capovolgimento metonimico del rapporto paesaggio-natura; in molti casi sono nate in absentia di ogni nozione di paesaggio come luogo del vissuto da parte degli ecologisti, che si sono mobilitati più sotto la spinta dei guasti osservati nell’ambiente, per effetto della tecnoeconomia globalizzatrice, che da quelli da essa prodotti sui singoli paesaggi, sui loro delicati equilibri e sul loro irrecuperabile patrimonio di memoria. Tanto è vero che, «quando un’industrializzazione senza regole e una funzionalizzazione senza riserve del territorio hanno cominciato a fare sentire i loro effetti devastanti, le battaglie ambientaliste si sono mobilitate, giustamente, contro le ricadute devastanti sull’ambiente, l’avvelenamento di acque e suoli, la compromissione degli equilibri idrogeologici, il dissesto dei terreni... [Questo ha fatto sì che] la posta in gioco delle battaglie ecologiste [sia stata] la “natura”, il cosiddetto “ambiente”, concepito correttamente nei termini di approcci scientifici olistici, ma quasi mai come complesso di fenomeni dotati di valenze estetiche, né come sostrato di un paesaggio ormai più ampiamente culturale: tant’è che l’ecologia non parla di specificità dei luoghi, se non come biotopi, né di paesaggio, come se la natura si desse astrattamente e non in precise situazioni spaziotemporali» (pp. 74-75).<br /><br />8 - PRIMA IL LOCALE – La naturale ricomposizione dei due termini, per un corretto approccio alla questione ambientale nel suo complesso, passa dunque attraverso la rilocalizzazione delle procedure: ogni intervento sul globale non può che partire dal locale; la salvaguardia, la gestione e la pianificazione del paesaggio, nella sequenza letterale indicata dalla Convenzione di Firenze, restituiscono unità e totalità di senso al paesaggio e sono la precondizione di ogni battaglia ambientalista. E questo perché, come scrive la Bonesio, «la natura si manifesta sempre in precise situazioni localizzate […]» (p. 74); «Un locale “autosostenibile, che recupera e valorizza la propria identità territoriale e si immette in una rete virtuosa di realtà omologhe e rispettose della propria e dell’altrui identità è la vera alternativa teorica, strategica, etica ed economica alla violenza deculturante della mondializzazione» (p. 214). <br />Solo se ripensati in questa prospettiva, che capovolge la precedente, natura e paesaggio convivono come unica realtà senza scissioni: «La scoperta della seconda metà del XX secolo dei limiti di sostenibilità coincide con la consapevolezza che la Terra non è lo spazio anodino e universale, ma, come scrive Berque, “un insieme singolare di luoghi singolari”. In effetti è la logica della singolarità, dello specifico locale, che appartiene nondimeno a un tessuto totale e interconnesso, a rendere possibile pensare senza scissioni la “natura” e i “paesaggi” come Terra, fatta di localizzazioni, di contorni, di orizzonti e articolazioni…Contrariamente ai Tempi Moderni, il paesaggio – sensibile, singolare, husserliano – non deve più compensare, in modo antitetico, l’ambiente – fattuale, universale, galileiano. Entrambi partecipano di uno stesso milieu: la Terra, riconosciuta come realtà sensibile per il fatto che ne conosciamo meglio la realtà fattuale. […] Da allora smettono di divergere l’ecologia e la simbolicità che la modernità aveva dissociato» (p. 77).<br /><br />9 - LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO (2000) – In questi corretti termini natura e paesaggio sono recepiti dalla Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa. Tenendo conto dei testi giuridici esistenti in materia a livello internazionale4, essa ha tradotto questi indirizzi teorici in «disposizioni generali», con efficacia giuridica e operativa per l’intero territorio europeo. Si tratta di disposizioni, come opportunamente sottolinea Riccardo Priore3 nel suo “Estratto”, destinate «a dare senso e pregnanza istituzionale ad un processo trasformativo, che, esprimendosi in termini metaforici, Paolo Castelnovi riferisce efficacemente all’applicazione di energie ad una materia inerte». L’obiettivo concreto di questo importante documento è di impegnare gli Stati firmatari a «realizzare un'unione più stretta fra i suoi membri, per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che sono il loro patrimonio comune». <br />Limitatamente al nostro tema, le innovazioni più rilevanti introdotte dalla Convenzione sul paesaggio riguardano: a) Il riconoscimento del suo valore simbolico e culturale, a prescindere dalla sua qualità estetica: la Convenzione riconosce infatti che ogni cultura nasce dai luoghi e ne costituisce, assieme alla lingua, il patrimonio identitario; anche se non tutti i paesaggi posseggono le stesse qualità estetiche, tutti sono ugualmente meritevoli di tutela e miglioramento; per questa ragione, il concetto di paesaggio, prima vincolato ai soli luoghi “eccezionali” – considerati solo per questo meritevoli di salvaguardia e gestione – viene ora esteso a tutti i luoghi della vita quotidiana e della produzione («…il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana»: ogni paesaggio, infatti, «concorre all'elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell'Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell'identità europea».); b) La corresponsabilizzazione nella gestione del paesaggio di una pluralità di soggetti: in quanto fondamento dell’identità di ogni comunità, alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione del paesaggio sono chiamati a contribuire tutti i soggetti interessati; i cinque comportamenti descritti nell’Articolo 5, scrive Priore, «sono concepiti per essere realizzati in maniera concomitante, secondo la sequenza letterale che li ordina: A - Sensibilizzazione; B - Formazione ed educazione; C - Identificazione e qualificazione»; il compito che ogni Parte si assume è quello di avviare procedure di partecipazione delle popolazioni interessate, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche atte a migliorarne la qualità di vita; dato il carattere essenzialmente culturale del paesaggio, ad essere chiamata direttamente in causa è l’istituzione scolastica (entriamo così nel merito dell’Articolo 6); gli insegnanti scolastici e universitari, «nell'ambito delle rispettive discipline, dei valori connessi con il paesaggio e delle questioni riguardanti la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione», sono chiamati a svolgere un ruolo di comprimari in questo processo di educazione e formazione della società civile, conformemente all'articolo 5 che stabilisce la “ripartizione delle competenze”; non solo, ma ai fini di una migliore conoscenza dei paesaggi, gli insegnanti di ogni ordine e grado sono chiamati a svolgere un’attività di identificazione e qualificazione degli stessi, «ad analizzarne le caratteristiche, nonché le dinamiche e le pressioni che li modificano»; c) La comprensione e la gestione del paesaggio come interazione multidisciplinare e sintesi dei vari saperi: come scrive Priore, il paesaggio «non è un accatastamento di cose, un semplice contenitore. Gli oggetti compongono un tutto e si valorizzano a vicenda per le relazioni che instaurano tra loro e non per vicendevole sovrapposizione. Per questa ragione, è importante che i contributi analitici dei diversi specialisti chiamati a collaborare possano essere confrontati ed integrarsi nel corso dell’intero processo»; la conoscenza e la comprensione del paesaggio è il risultato di una sintesi di «sguardi differenti»; per realizzare questa sintesi, sottolinea Priore, «è urgente ripensare i processi di educazione e formazione affinché le popolazioni apprendano (o ri-apprendano) a riconoscere e godere la bellezza dei paesaggi; ma anche ad individuare e rifiutare la bruttezza imposta attraverso decisioni indifferenti alla dimensione paesaggistica del loro abitare».<br /><br />10 - L’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE – Crediamo di interpretare correttamente l’Articolo 6 della Convenzione (definito da Riccardo Priore «una delle disposizioni più importanti della Convenzione», perché mette in dialogo e in sinergia poteri, saperi, esperienze e competenze diverse) se stabiliamo precisi collegamenti tra quest’ultimo punto e quanto abbiamo detto all’inizio: «i processi di educazione e formazione», cui fa riferimento Priore, chiamano direttamente in causa la scuola come istituzione più di ogni altra vocata ad aprire un confronto con soggetti diversi e/o nuovi, o finora non abbastanza coinvolti. Essendo in gioco valori fondativi di identità culturali e orientativi di politiche paesaggistiche nuove, si rende necessaria la creazione di numerose e ricorsive occasioni di confronto e dialogo, in modo che le scelte si radichino in un humus comune e i contenuti di queste scelte, più che impartiti, siano costruiti e testimoniati. <br />Se è vero che «il paesaggio non è mai un dato», come scrive Priore, e che alla sua comprensione si accede attraverso «sguardi differenti» che «instaurano col progetto rapporti carichi d’ambiguità e di interrogazioni, destinati a scardinare ogni pretesa di oggettività e neutralità nei riconoscimenti di valore…», spetta in primis alla scuola, nei diversi ordini e gradi, promuovere la cultura della partecipazione per individuare percorsi unitari e condivisi al fine di dare risposte univoche, e non affastellate e frammentarie, a “ciò che vogliono” i luoghi e le popolazioni che li abitano. Questo favorirebbe la ricostituzione dei legami spezzati o indeboliti tra le diverse anime delle comunità e il rafforzamento del rapporto dei cittadini con i loro ambienti di vita.<br />L’attenzione al locale e al territorio, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze (e quindi dell’essere rispetto all’omologazione e all’avere), consentono di attingere a esperienze e saperi per loro natura diversi, ma capaci di divenire complementari e di alimentarsi a vicenda, modi di pensare e stili di vita realmente alternativi rispetto a quelli attualmente in essere nella scuola e nella società.<br /> <br />11 - GLI ALFABETI ECOLOGICI (2007) – Questo documento si propone come un vero e proprio «Manifesto per l’educazione ambientale». Esso è stato promosso, su iniziativa del Sottosegretario di Stato Laura Marchetti, dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del mare e del territorio in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, «con l’obiettivo di elaborare proposte, iniziative e sperimentazioni per un nuovo modo di fare educazione ambientale a scuola». Il paesaggio, come ha osservato la stessa Marchetti (che ha le deleghe sulla tutela del paesaggio e sull’Educazione ambientale), «andrebbe sottratto a quella esclusiva visione di “pregio” che, per certi versi, connota ancora l’impostazione dei Beni Culturali, e restituito a una visione complessa capace di tutelarne gli aspetti “minori”, anche quelli che non corrispondono ad un canone tradizionale di godimento e di bellezza, ma che hanno a che fare con la sicurezza, la sobrietà nell’uso delle risorse, la rispondenza al “genius loci”: la mente locale, il gesto antropologico umano che elabora, organizza e costruisce nel rispetto del conteso comunitario e degli equilibri naturali». Su questi concetti, come si è già visto, si è a lungo soffermata Luisa Bonesio nel suo ultimo libro. <br />Anche per gli Alfabeti Ecologici l’educazione ambientale inizia dai luoghi. Sono, infatti, i luoghi dell’abitare a subire per primi gli effetti nefasti dell’abbandono e del degrado culturale: «La non leggibilità del proprio territorio è responsabile oggi di un nuovo spaesamento che lacera la percezione dello spazio e provoca la disabitudine alla relazione performativa con la natura. Avanza lo spazio distrutto, ma anche lo spazio anonimo e sempre più artificializzato […]. Il danno prodotto al paesaggio non è un danno prodotto ad un “ambiente”, ad un mero sfondo. Il danno al paesaggio è un danno irreversibile prodotto al soggetto». L’educazione ambientale deve quindi partire dai luoghi: «Parliamo ai ragazzi attraverso i luoghi. Primo quello di Korokocho, la grande discarica umana al centro di Nairobi, una città fatta su una montagna di rifiuti in cui vivono quasi tre milioni di rifiuti umani, cifre di quello che, come denuncia l’ultimo rapporto dell’ONU, sarà fra meno di cinquant’anni lo scenario di tutta l’Africa». Ma i luoghi dove il degrado è più grave sono anche «le periferie delle nostre città, gli alveari di cemento, gli enormi ipermercati incapsulati o incastonati l’uno nell’altro e affiancati ciascuno da grandi pattumiere, in cui sciamano folle di aspiranti consumatori: veri e propri non-luoghi, templi sacralizzati dall’urbanesimo di una cattiva modernità in cui svaniscono le relazioni di vicinato, il legame solidaristico si allenta in un progressivo deterioramento dei mondi vitali interni come dei luoghi comunitari». È qui che bisogna portare in visite guidate i nostri ragazzi, «non solo nei parchi e nei musei della nostra bella nazione». <br />Dai luoghi particolari lo scenario della desolazione si allarga fino a comprendere i mari, le montagne, i deserti: «Facciamo capire che scarseggia l’acqua, che il suolo geme per l’illegalità, i rifiuti, il cemento, che il carico complessivo delle attività produttive e degli stili di vita stanno producendo la sparizione progressiva di migliaia di specie di piante e di animali, il degrado forse irreversibile delle foreste e delle zone umide, la perdita della biodiversità e, con essa, di tutta la bellezza, la potenza e ricchezza della vita. Facciamogli insomma comprendere quanto è radicale la crisi e come, alle soglie del Terzo Millennio, l’umanità si trovi ormai ad un bivio». <br /><br />12 - LA SCUOLA DEL FUTURO – Anche negli Alfabeti Ecologici, come nella Convenzione del paesaggio, la sensibilizzazione ai valori dei luoghi e dell’ambiente s’inserisce in un processo educativo e formativo, dove la scuola svolge un ruolo essenziale. Così nel punto 2: «La Scuola è forse l’unica organizzazione sociale che ha il carico di guardare al futuro, pur avendo saldamente le basi e il cuore radicati al presente e pur avendo il compito di conservare il passato». Il ruolo fondamentale della scuola, richiamato dalla Convenzione (Articolo 6), è qui ripreso e puntualizzato più volte e con forza: alla scuola, come istituzione, vengono riconosciuti una responsabilità e un ruolo assolutamente preminenti e ineludibili, «un ruolo irrinunciabile di sperimentazione e di coordinamento, un ruolo fisicamente e simbolicamente legato all’identità e all’appartenenza. La Scuola, inoltre, almeno nell’idealtipo, trasforma il desiderio individuale della conoscenza in un bene condivisibile, in un bene comune». Ricostruire i tessuti lacerati dei territori rientra negli impegni programmatici di una scuola saldamente inserita nel territorio. Essa deve diventare una vera e propria comunità di ricerca, capace di realizzare occasioni per condividere conoscenze e abilità con i soggetti del territorio, in modo da costruire competenze ancorate alla cultura locale ma pronte a confrontarsi con le sfide globali in atto. La scuola del futuro (di un futuro prossimo) dovrà essere capace di creare presidi in grado di alimentare il circuito della conoscenza in senso spaziale e con continuità in senso temporale: dovrà essere «una scuola aperta al proprio interno, ossia capace di lavorare fra le classi, nei laboratori, sui nuovi saperi, incrementando spazi di innovazione, di ricerca, di pensiero critico e divergente; ma anche una scuola rivolta all’esterno, capace di stabilire continui interscambi con i luoghi formativi delle comunità, del territorio».<br /><br />13 - IL DISINQUINAMENTO DELLE COSCIENZE INNANZITUTTO – Un’altra tesi centrale degli Alfabeti Ecologici è che il disinquinamento deve partire dal microcosmo dei luoghi. Ma, ancor prima, da noi stessi. E questo perché, come sostiene la Marchetti, «nell’epoca dell’inquinamento globale è proprio la mente ad essere la più inquinata. La polluzione atmosferica viene sovrastata dalla polluzione delle idee, l’invivibilità progressiva e la saturazione della biosfera, nonché la perdita della biodiversità di specie, vengono condizionate e amplificate dalla saturazione della semiosfera e dal venir meno di ogni culturale biodiversità. L’effetto più evidente è la standardizzazione dell’immaginario, quella che Serge Latouche denuncia come “macdonaldizzazione del mondo”, una uniformizzazione a livello planetario delle idee e dei linguaggi che, grazie anche alla efficienza e alla velocità della telecomunicazione globale, omologa non solo comportamenti e stili di vita ma anche sentimenti e passioni, modi di amare e di morire, di essere sani e di impazzire». <br />La «scuola del futuro» (punto 4) dovrà sviluppare un nuovo umanesimo, «un social humanisme, secondo la formula di Dewey, che sia anche un social-ecological-humanisme; un “bioumanesimo” che consideri “l’umanismo come naturalismo e il naturalismo come vero umanismo”, che cioè sappia ricomporre una visione integrata dell’uomo e del mondo in base alla quale l’uomo venga ad interpretarsi come soggetto interno e vitalmente collegato alla natura e apprenda altresì a “sentire” e ripensare il mondo nella continuità e nella causalità complessa che lega tutti gli esseri viventi». La scuola del futuro potrà in questo modo contribuire a riportare la nostra attenzione sui luoghi, a ritrovare le radici, «i saperi e i sapori della memoria […], salvare mondi scomparsi, narrazioni perdute, lingue tagliate. Deve sottrarle al rimpianto, portarle al futuro» (punto 11). Per promuovere una sensibilità e un pensiero autenticamente ecologici, fatto anche di sensibilità estetica e coscienza etica, essa dovrà anche proporsi come educazione naturale e «all’aria aperta», che usi parchi, giardini, piazze urbane e rurali come «aule didattiche e decentrate», secondo l’insegnamento di don Milani e Maria Montessori.<br /><br />14 - CONCLUSIONE – I tre testi che abbiamo preso in esame (la Convenzione europea del paesaggio, gli Alfabeti ecologici e l’ultimo libro di Luisa Bonesio, che ci è servito da tramite per stabilire i possibili collegamenti tra i primi due), ci indicano chiaramente i percorsi da intraprendere per uscire dall’attuale impasse: «Ciò può avvenire, come scrive la Bonesio nella prima pagina del suo libro, soltanto a partire da un radicale ripensamento del Luogo, in quanto spazio non meramente astratto e geometrico, ma concreto lembo di terra, ogni volta singolare, qualificato dall’incontro tra natura e cultura e dalle loro stratificazioni storiche, nel convincimento che l’odierno galoppante processo di delocalizzazione non produce unicamente spaesamento, ma impedisce anche ogni possibilità di futuro soggiorno, senza del quale l’umanità è certamente destinata alla sparizione».</span>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-65914181919031448542008-01-09T15:45:00.001+01:002008-01-09T15:53:35.448+01:00CARTA DI ARENZANOIl 29 aprile 2006 a Sant'Elpidio a Mare è stato presentato il Movimento ecosofico e civile “Per la terra e per l’uomo”, ispirato alla “Carta di Arenzano”, documento di principio in merito all'emergenza ecologica che era stato firmato, il 15 luglio 2001, dai più grandi poeti del mondo (da Derek Walcott a Seamus Heaney, ad Adonis, da Bei Dao a Mario Luzi, da Yves Bonnefoy ad Andrea Zanzotto, a John Ashbery, solo per nominarne qualcuno).All’evento intervennero due firmatari della “Carta”: Tahar Bekri e John Deane.<span class="fullpost">L'originalità e la ragione più profonda del documento e della nascita del Movimento, stanno nel fatto che essi individuano nei poeti e nel loro pensiero i mediatori privilegiati di una proposta di senso globalmente condivisa e votata a un profondo significato ecosofico e civile.In sostanza, i promotori dell'iniziativa pensano che non soltanto sia possibile riformulare un'etica della terra, in vista dell'attuazione dei principi sui quali si fonda il cosiddetto sviluppo sostenibile, ma che sia necessario evidenziare l'orizzonte entro il quale questi principi trovano significato.Pensano che per cultura sia giusto intendere l'appartenenza a un insieme di significati e di costumi condivisi dalla comunità, e la conoscenza delle nozioni e delle azioni indispensabili al suo funzionamento armonico, anche in relazione a più ampi sistemi di significato, simbolici, religiosi, tradizionali, cosmici.<br />Pensano che la voce dei poeti, insieme a quella di tutti i soggetti coinvolti nel processo di ripensamento delle categorie antropologiche che definiscono il rapporto dialettico tra uomo e natura, possa contribuire all'aresto del processo di degradazione dell'ambiente, del paesaggio, della società.<br /><br />CARTA di ARENZANO. DODICI TESI PER LA TERRA E PER L'UOMO<br /><br />1. Il rapporto con la terra comporta anche responsabilità e doveri<br />2. La terra è così necessaria all'uomo come lo sono tutte le altre cose che egli apprezza per il loro valore intrinseco: l'arte, la filosofia, la poesia, la religione, la scienza, il teatro<br />3. Per abitare consapevolmente la terra occorre riconoscerne il valore di bene comune<br />4. Identificare e regolamentare i limiti delle applicazioni della tecnica è condizione necessaria per impedire che la terra sia trattata come un inerte sostrato di sfruttamento e manipolazione<br />5. Una parte significativa del senso della vita consiste nel fatto di trovare, esprimere e riconoscere la sua naturalità<br />6. La rottura dell'equilibrio naturale non è un problema che riguarda solo la natura, ma l'uomo<br />7. L'antropocentrismo, fenomeno che connota in profondità la civiltà occidentale degli ultimi secoli, è il responsabile principale della crisi ecologica. Il declino e quasi la scomparsa dello sguardo contemplativo rivolto al creato ha favorito l'alleanza, tendenzialmente suicida, di scienza ed economia nel segno della tecnica<br />8. La cancellazione dei tratti differenziali che distinguono un luogo da un altro non è un ineluttabile correlato dello sviluppo economico<br />9. La manipolazione della costituzione geografico-paesaggistica dei luoghi e il conseguente degrado ecologico ed estetico, comporta la perdita, incommensurabile, dei valori simbolici a esso correlati<br />10. Puntare ad una restaurazione di forme del passato o perseguire un ideale di armonia spontanea con la natura equivale a compiere un consolatorio salto fuori dal nostro orizzonte storico<br />11. Di fronte all'avanzamento del sincretismo planetario come dell'esasperazione delle logiche particolaristiche, nazionaliste, etniciste, è doveroso ritrovare e valorizzare le differenze e la logica del locale<br />12. La salvaguardia dei propri tratti singolari, se concepita nei termini di differenzialità e dialogo con l'altro, conduce a un effettivo pluralismo, molto più dell'utopia universalistica e generalizzante su cui si è edificata la modernità.<br /><br /><br /><em>Luisa Bonesio e Massimo Morasso (il teorico e l'estensore della “Carta di Arenzano”)</em></span>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-11838376498950353662008-01-09T15:16:00.000+01:002008-01-09T15:19:53.125+01:00DECRESCITA FELICE"Efficienza, qualità e risparmio" lo slogan per la vita umana. Obiettivi: "Mitigazione della povertà, mitigazione della ricchezza". Lo scrittore Maurizio Pallante eletto presidente.<br /><br /><br /><br />Sono durati due giorni a Rimini i lavori dell'assemblea che il giorno 16 dicembre 2007 ha dato vita e struttura al Movimento per la Decrescita Felice (MDF).<br />La sua sede legale è a Refrontolo (Treviso), nella casa di proprietà di un socio ristrutturata con criteri della massima efficienza energetica e idrica, con un orto per autoproduzione coltivato biologicamente.<span class="fullpost"> <br /><br /><br /><br />Il Movimento non aderisce ad alcun partito politico e non intende diventare partito politico, né partecipare a elezioni di alcun tipo, come precisa un articolo dello statuto. L'assemblea si è imposta di diffondere su tutto il territorio nazionale la propria azione di sensibilizzazione per una vita più sobria e più felice, che diminuisca i consumi e ritorni, laddove possibile, all'autoproduzione.<br />Decrescita è: valorizzare le attività e la produzione di beni che riducono l'impronta ecologica, diminuire i consumi di merci inutili e dannose. Questo il fine prioritario.<br /><br /><br /><br />19 i componenti del Coordinamento: Maurizio Pallante è stato eletto all'unanimità presidente; Paolo Ermani vice presidente-segretario; tesoriere Arturo Federico; coordinatore dei Circoli territoriali è stato eletto Massimo De Maio; il giornalista Ignazio Maiorana responsabile della comunicazione, coadiuvato da Stefano Altemani.<br /><br /><br /><br />Si sono formati sei Gruppi tematici i cui responsabili, tutti membri del Coordinamento, si sono già messi al lavoro lo stesso giorno dell'assemblea. Ecco i loro nomi: Marco Cedolin e Bruno Ricca (cultura), Nello De Padova e Valerio Pignatta (stili di vita), Marco Boschini, Barbara Martini e Irina Drigo (politica), Gianluigi Salvador ed Ermes Drigo (scienza e tecnologie), Emanuela Cavadini e Francesco Ermani (economia e lavoro), Mario Carini e Porzia Poli (decrescita e povertà).<br /><br /><br /><br />Il MDF diffonderà via via la banca dati delle buone pratiche ed estenderà le iscrizioni a soci, sostenitori e simpatizzanti in tutta Italia dove si stanno già formando i Circoli Territoriali (chi è interessato ad aderire può consultare il sito).<br /><br />"L'obiettivo a breve termine del Movimento - dichiara il presidente Maurizio Pallante - è quello di raggiungere e coinvolgere alcune migliaia di coscienze libere. Al centro dell'impegno del MDF un codice etico che può essere sposato dalla politica e il ruolo delle comunità dove lo scambio di beni avviene sulla base del dono e della reciprocità".<br /><br /><br /><br />Ufficio stampa<br />(tel. 337 612566 - 340 4771387 - stampa@decrescitafelice.it )<br /><br /><br />Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it</span>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-75965306816060769632007-11-20T10:05:00.000+01:002008-11-13T15:15:06.486+01:00Guida alla sopravvivenza. Imparare ad essere autosufficienti. Di Guido Dalla Casa<div align="justify"> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhdahrimILWz0pSnpgNhTOgXe2oR9QJQkXfD03H8DlB39hOfgnBOX2mBscByXrq7JTXKdEEKvn4Lc0ybENpRYIUSKLNYvq2laOMpJFmX5ZV6DOVQSRUORWEgvWgvw8CSMEAzCjyfrjYCtM/s1600-h/copj13.jpg"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5134848660693387106" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; CURSOR: hand" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhdahrimILWz0pSnpgNhTOgXe2oR9QJQkXfD03H8DlB39hOfgnBOX2mBscByXrq7JTXKdEEKvn4Lc0ybENpRYIUSKLNYvq2laOMpJFmX5ZV6DOVQSRUORWEgvWgvw8CSMEAzCjyfrjYCtM/s320/copj13.jpg" border="0" /></a> </div><div align="justify">Non occorre una gran fantasia per rendersi conto che la civiltà industriale odierna, che vive sulla crescita e si basa su non-cicli, è un fenomeno impossibile sulla Terra.<br />La Natura si basa su cicli, questa civiltà si basa invece su “risorse” che si consumano e “rifiuti” che si accumulano; quindi non può durare a lungo. Dato il modo esponenziale con cui avanza e il suo grado di invasione del Pianeta, si può prevedere ormai prossimo l’inizio di quei fenomeni traumatici che ne segneranno la fine.<br />Le probabilità che il modello si modifichi gradualmente fino a raggiungere condizioni stabili, cioè fino ad ottenere una situazione stazionaria (che in economia viene chiamata crescita-zero) e a funzionare solo su cicli chiusi, sono molto scarse. L’avvicinamento esponenziale di questa civiltà ai limiti globali del sistema è ormai rapidissimo.<br />Sono passati più di dieci anni dall’ammonimento di U Thant alle Nazioni Unite (1) e dalla pubblicazione de I limiti dello sviluppo ma non si è fatto nulla per arrestare il processo: tutte le forze politiche continuano ad inneggiare allo “sviluppo” e la situazione si è ulteriormente aggravata.<br />Le proiezioni in avanti di una trentina d’anni di molti fenomeni oggi in corso danno risultati chiaramente paradossali; i consumi energetici che si dovrebbero avere sulla Terra sono palesemente incompatibili con le “risorse” ancora a disposizione, ma soprattutto con il funzionamento stesso del Pianeta.<br />C’è chi pensa che “c’è ancora molto petrolio sotto gli Oceani”. Se si trovasse ancora molto petrolio, sarebbe la peggiore delle sciagure. Già oggi muoiono centinaia di migliaia di esseri viventi a causa di questo liquido. Ogni tanto minuscoli trafiletti sui giornali danno notizia che centomila uccelli sono morti nel Mare del Nord per chiazze oleose vaganti. Non parliamo poi dei pesci, vengono uccisi in gran numero a causa del petrolio.<br />Eventuali nuovi ritrovamenti non farebbero che ritardare di poco il collasso, aggravando però di molto la situazione.<br />E’ la Vita che si distrugge. La civiltà industriale sta distruggendo la vita, come un male avanzante nel corpo cui appartiene. C’è da sperare che non si trovi più petrolio. Altrimenti sarebbe peggio. Non parliamo poi dei guai che si creano nell’atmosfera per la combustione di queste enormi quantità di combustibili fossili: le piogge acide sono in aumento ovunque. Anidride carbonica, ossidi di azoto e di zolfo vengono immessi nell’aria in quantità impressionanti. Tanti sono i fenomeni di questo tipo su scala mondiale: si è fatto solo qualche esempio.<br />Se il modello di oggi, che chiameremo civiltà industriale sempre-crescente, dovesse continuare, si avrebbero conseguenze disastrose: immense foreste scomparse, interi mari privi di vita, megalopoli mostruose, malattie mentali e criminalità ovunque.<br />Ci sono quindi molti motivi per ritenere che questi fenomeni si interromperanno prima, e questo può significare solo la fine traumatica di questa civiltà. E’ assai difficile immaginare cosa significhi in pratica, come è molto difficile comprendere quando sarà “il momento”: i segni premonitori ci sono già oggi, ma ne dovrebbero venire altri, più chiari. Anche se quasi nessuno li interpreterà in questo senso, perché nessun modello culturale umano è capace di concepire la propria fine. Si darà la colpa alle destre, alle sinistre, al capitale o al sindacato, agli imperialisti o agli egualitari, ai conservatori o ai progressisti, ma ben pochi percepiranno la sostanza del fenomeno, la fine di un modello di vita, quello industriale nato due secoli fa. Non si può interpretare questo collasso con motivazioni economiche, perché è la fine del concetto stesso di economia.<br />Tutto questo sembrerà a molti la fine del mondo: ma, per quanto si tratti di una cosa drammatica, sarà solo la fine di una forma di pensiero, dell’idea-guida che lo scopo dell’umanità sia l’incremento indefinito dei beni materiali, cioè l’idea-guida della civiltà industriale. Cosa intende infatti questo modello come “miglioramento”? L’aumento dell’avere, del reddito, degli oggetti.<br />A consolazione per questa prossima fine, che sarà traumatica per quasi tutti, salvo gli abitatori di qualche superstite foresta, ricordiamo che si accompagna a questa “crescita” anche l’aumento della criminalità, del consumo di farmaci di ogni tipo, delle malattie mentali.<br />Inoltre, facciamo un’altra considerazione: la catastrofe della nostra civiltà è l’unica speranza di sopravvivenza per molte altre culture umane, gli Indios dell’Amazzonia, i Papua della Nuova Guinea, le ultime tribù africane, oceaniane, asiatiche. Se il processo continua, non hanno alcuna speranza di sopravvivere: sarebbero distrutte e fagocitate, i loro componenti dovrebbero scegliere fra restare abbrutiti dagli alcolici o trascinare miseramente la propria esistenza come “sottoproletari” ai margini di quell’altra civiltà. La catastrofe di questo sistema è anche l’unica speranza di sopravvivenza per moltissime specie di esseri viventi, animali e vegetali. Quindi è una disgrazia solo per noi.<br />Ma torniamo ai fatti. Siamo tutti imbevuti, condizionati dal modo di vivere della civiltà industriale, e moltissimi non potranno sopportare nemmeno l’idea di vivere in un altro modello, non riescono neppure a concepirne la possibilità di esistenza. Ma c’è anche chi vuole comunque sopravvivere.<br />Negli Stati Uniti c’è stata una fioritura di associazioni e movimenti, ma soprattutto vendite di oggetti che riguardano la sopravvivenza. Quindi, grossi affari per qualcuno, secondo il classico stile di quella gente. Questi gruppi di persone vengono chiamati “survivalisti” (dall’inglese survival=sopravvivenza).<br />Di solito si preparano a maneggiare armi, ammassare provviste e scatolette in bunker, rifugi antiatomici, cantine. Al massimo si chiudono nelle loro palizzate, per difendere “la loro proprietà”. In complesso si tratta di prospettive molto squallide: viene da chiedersi se vale la pena di vivere come topi da fogna, pronti ad uccidere per non essere uccisi, tenendosi magari addosso la paura di morire di leucemia per le radiazioni, se si esce. Ma questo è il loro stile; e pensano di “ricominciare” come i pionieri, come i loro nonni.<br />Non è partendo dalle armi, dalla violenza o dai bunker che si può salvare una vita decente; inoltre l’idea di “ricominciare” è semplicemente una follia, perché vorrebbe dire riprodurre le condizioni che hanno causato il collasso.<br />In questo manuale si farà un’ipotesi diversa, basata su una sopravvivenza fisica iniziale, ma con la speranza di rinascere anche spiritualmente verso una forma di pensiero e di civiltà che abbia fondamenti filosofici diversi da quelli che sono stati alla base del modello fallito.<br />Qualunque comunità, qualunque modello culturale deve basarsi sull’equilibrio, sulla consapevolezza di far parte in tutto e per tutto di un’Entità più vasta, che chiameremo la Natura.<br />Lo scopo di questo manuale è di fornire una traccia, una debole guida verso quella che può essere una sopravvivenza fisica, psicologica e culturale; soprattutto una speranza di riuscire a sopravvivere al periodo di transizione, al periodo traumatico del collasso, e di fornire qualche indicazione per raggiungere una condizione più stabile e più serena. Per questo bisogna prepararsi, anche se le difficoltà di prevedere l’epoca e le modalità del cambio di modello rendono estremamente difficile intraprendere a tempo giusto azioni concrete.<br />Bisogna comunque essere pronti a cavarsela anche nei primi tempi, quando il supporto della cosiddetta “civiltà” – che è poi soltanto una civiltà fra le tante – i rifornimenti e la facilità di trasporti verranno a cessare, quando è molto probabile che lo sbandamento generale provochi la formazione di numerose bande di delinquenza spicciola vagante, quando bisognerà scegliere se entrare in competizione su questo piano, o ritirarsi in località meno turbolente, ma molto meno “comode”. Bisognerà riuscire a cavarsela con poco a disposizione, senza possibilità di comprare roba nei negozi, o rivolgersi ad altri per ogni occorrenza.<br />Bisognerà re-imparare rapidamente a vivere anche senza il panettiere, il lattaio, il negozio di vestiti. Trarre dal resto della Natura, ma in armonia con Essa, il necessario per vivere, e anche essere sufficientemente sereni.<br />Per rendere più variata l’esposizione, a volte ci si rivolgerà ai lettori come se si trovassero al tempo presente, altre volte come se stessero leggendo il manuale già in condizioni di sopravvivenza, dopo il cambio di modello culturale.<br />-----------------<br />(1)“Non vorrei sembrare troppo catastrofico, ma dalle informazioni di cui posso disporre come Segretario Generale si trae una sola conclusione: i Paesi membri dell’ONU hanno a disposizione a malapena dieci anni per accantonare le proprie dispute ed impegnarsi in un programma globale di arresto della corsa agli armamenti, di risanamento dell’ambiente, di controllo dell’esplosione demografica, orientando i propri sforzi verso la problematica dello sviluppo. In caso contrario, c’è da temere che i problemi menzionati avranno raggiunto, entro il prossimo decennio, dimensioni tali da porli al di fuori di ogni nostra capacità di controllo” (U Thant, 1969)<br /><br /><br />1. - Dove andare<br />“Rilievo e clima isolano le montagne: le comunicazioni sono più rare, più faticose, più pericolose e più spesso interrotte. Questo isolamento ha però spesso i suoi lati buoni. Nei periodi di incertezza le montagne hanno offerto rifugi sicuri a coloro che osavano stabilirvisi. E’ in questo modo che esse hanno acquisito gran parte delle loro popolazioni. Persino nelle montagne attraversate da grandi strade, battute da predoni e soldati, rimanevano vallate appartate e poco accessibili, alti versanti facili da sorvegliare e da difendere.<br />Nell’interno di questi rifugi ha potuto rafforzarsi il gusto della libertà, maturare l’esperienza dell’autonomia.<br />Rifugio di popolazioni, conservatrice di idee e tradizioni, la montagna ricorda le isole. In ambedue i casi non si è mai trattato, salvo rare eccezioni, di isolamento totale; in ambedue i casi l’isolamento relativo tuttavia è stato dei più efficaci, persino sulle montagne e sulle isole più vicine alla pianura o al continente.”<br />(da La Montagna, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1962)<br /><br />Facciamo un’ipotesi concreta sul prossimo futuro, una delle tante possibili.<br />In uno dei prossimi anni potrebbe succedere che:<br />Il prezzo del petrolio è aumentato ancora, gli Stati arabi del Medio Oriente sono in continua guerra fra loro, i governi cadono e cambiano. Lo stretto di Hormuz risulta infine chiuso per eventi bellici. Una superpotenza pensa di intervenire. In Europa c’è già il razionamento dei prodotti petroliferi. Ben pochi, soprattutto nelle città, sono in grado di passare l’inverno senza di essi. Le industrie sono costrette a ridimensionarsi o a fermarsi. Agitazioni, delinquenza, disoccupazione, prezzi altissimi peggiorano la situazione di mese in mese.<br />Nei deserti del Medio Oriente non c’è giorno senza guerra.<br />Nessuno vuole riconoscerlo, ma in realtà l’aumento continuo dei beni materiali, il cosiddetto sviluppo economico, è ormai alla fine.<br />L’inquinamento ha ridotto il Mediterraneo, il Mar del Giappone, il Mar Nero, il Baltico e gran parte dell’Atlantico a mari quasi privi di vita. Il pesce, ormai raro, ha prezzi altissimi. L’ideologia industriale è alle corde.<br />Finché una delle superpotenze, vedendo ormai prossimo il collasso, decide, come suo vecchio costume, di “estrarre per prima la pistola”.<br />Così un mattino ascoltate la notizia: New York e Mosca, Kiev e Detroit, Tokyo e Shanghai sono già un cumulo di rovine radioattive. Un fatto del genere è possibile anche per altre considerazioni: un modo con il quale l’Organismo Totale, cioè la Natura, può reagire all’attuale eccesso di popolazione umana con il minimo di distruzione per gli equilibri vitali è proprio quello di eliminare le grandi città, densissime di popolazione e di consumi e molto scarse di altre forme di vita.<br />L’Organismo reagisce eliminando i centri di concentrazione del suo male.<br />Quando una specie si moltiplica in modo abnorme arrecando danni di ogni genere all’Equilibrio Generale, la Natura, cioè la Mente Universale, fa nascere nei componenti di questa specie degli istinti suicidi. Il fenomeno si manifesta, ad esempio, nei lemmings e nelle locuste. Il modo in cui questi istinti suicidi possono manifestarsi in pratica nella specie umana è la guerra totale.<br />Ma ritorniamo alla nostra ipotesi:<br />Dopo la distruzione di alcune città, c’è una larva di mobilitazione generale, ma il buon senso di parecchi giovani fa sì che nelle caserme, invece di muoversi compatti verso un ipotetico “nemico della patria”, si senta vagamente che tutto questo non ha più senso e incominciano in pratica grossi ammutinamenti. I grandi sistemi di comunicazione e di rifornimento, i servizi, cominciano a collassare.<br />Nel giro di pochi giorni, o di poche ore, dovete decidere se affrontare questo mondo ormai in disordine, rischiando che l’atomica venga a far fuori anche qualche città italiana, o fuggire. Ma dove? E per quanto tempo?<br />I survivalisti americani si rintaneranno dentro i loro bunker, o dietro le loro palizzate, con le mitragliatrici e le scatolette, magari pensando a qualche vecchio film, ma tutto questo è soltanto squallido e folle.<br />E voi che farete? Molto dipenderà da dove vi trovate. Qualcuno penserà di raggiungere qualche località isolata, tagliata fuori o tagliabile da grosse vie di comunicazione, quindi sostanzialmente un ambiente non facile, secondo la mentalità di oggi, dove la gran parte delle persone non penserà di dirigersi perché di accesso difficile, o agevolmente isolabile.<br /><br />In Italia, località simili possono trovarsi in montagna, sulle Alpi o sugli Appennini, o nelle isole minori. Pur facendo qualche accenno anche a soluzioni riguardanti le isole, ci si riferirà più in particolare alla fuga in località montane.<br />Sarebbe bene avere già un rifugio dove pensare di dirigersi, magari con qualche riparo, casa o capanna larvatamente abitabili.<br />Come località adatte si potrà scegliere:<br /><br />- in località marina, qualche isola abbastanza piccola per non essere facilmente bersaglio di malintenzionati, e quindi così povera di “risorse” da non essere ambita per atti di pirateria, ma non troppo piccola e arida da non consentire alcuna forma di sopravvivenza a una comunità di almeno venti-venticinque persone.<br />E’ indispensabile che esista almeno una sorgente di acqua dolce o che le piogge vi siano sufficientemente frequenti da non rendere problematico l’approvvigionamento di una quantità minima di acqua. L’acqua è la base essenziale senza la quale non è possibile alcuna forma di sopravvivenza, anche se vi sono popolazioni che sono riuscite a vivere nel deserto del Sahara, in cui però avevano una perfetta conoscenza delle oasi e dei pochi pozzi.<br />Deve esserci un minimo di vegetazione, deve essere possibile allestire degli orti, il mare circostante deve essere sufficientemente pescoso. L’isoletta deve consentire l’allevamento di qualche animale, come capre, pecore, galline.<br /><br />- in località montana, una conca, un alpeggio, una valle sufficientemente chiusa da tutti i lati, con un solo imbocco, agevole, e magari non troppo.<br />Se la zona non è nota, meglio ancora. Un segno che la località è abitabile in modo autonomo, è che sia stata abitata nel passato, o che lo sia ancora, magari da qualche anziano pastore, che però può diventare prezioso per consigli e per instaurare una reciproca collaborazione: chi arriva avrà bisogno di chi è sempre stato lassù. In questo caso inoltre ci sono già baite: anche se un po’ diroccate, si potranno rimettere in piedi.<br /><br />Ricordatevi, per farvi forza, che un simile modo di vita autonomo è stato possibile per secoli sulle montagne, nelle campagne e sulle isole; è durato fino a non molti anni fa. Quindi, se avete impegno e siete forti spiritualmente, potete farcela anche voi.<br />Forse pensate che troppa gente vi salirà, e di tutti i tipi. Ma probabilmente non sarà così: chi è ormai visceralmente attaccato al suo mondo di oggetti e di simboli non salirà dove l’accesso è faticoso, quando le automobili non andranno più, e le funivie saranno fili inutili, buoni solo a deturpare la montagna. Preferiranno lottare a morte nelle pianure, nel vano tentativo di restare aggrappati alle “comodità”, per contendere agli altri con la violenza quel poco che sarà rimasto.<br /><br />2. - Cosa portare con sé – Come cavarsela nei primi tempi<br />Premesse – Come costruire un rifugio – Il fuoco – L’acqua – Il cibo – La conservazione della carne – Come cucinare<br /><br />3. - Principi di sopravvivenza indefinita<br /><br />In un modello culturale umano è possibile sopravvivere a tempo indefinito solo se si tengono sempre presenti alcuni principi fondamentali, che discendono in sostanza dalla percezione completa e consapevole di essere parte di una Entità, di un Organismo più vasto, cioè della Natura. Siamo componenti di Qualcosa che ha leggi di funzionamento che non possono essere ignorate.<br />E’ la dimenticanza di questo fatto la causa del prossimo collasso dell’attuale modello culturale umano di derivazione europea.<br />Alcune filosofie orientali consideravano veri soltanto i processi che possono perpetuarsi senza limiti di tempo. Anche le comunità del futuro dovranno regolarsi in questo modo.<br />Vediamo qualcuno dei principi essenziali:<br /><br />- Ogni territorio può sostenere come massimo un numero di persone determinato: se sono di più, non si può vivere in equilibrio, quindi la comunità non può durare. Le tensioni che ne segnerebbero la fine sono inevitabili. Per vedere quante persone possono vivere in un dato territorio si può, in prima approssimazione, contare quante capanne, o case, o baite, vi erano da secoli. Se il territorio era abitato lungo tutto l’arco dell’anno, si può avere un numero approssimato contando circa due o tre persone per casa preesistente. Se era abitato solo durante la stagione estiva, sarà bene ridurre il numero così ottenuto. In conclusione: la densità di popolazione umana in un dato territorio ha dei limiti massimi ben precisi.<br /><br />- Non si può “buttare via” niente, perché ogni cosa è lì, e non scompare, se non rientra in un ciclo della Natura nelle giuste proporzioni.<br /><br />- Ogni processo della comunità deve essere un ciclo chiuso che lascia inalterato l’ambiente, cioè il numero di specie viventi animali e vegetali deve restare circa costante. Le specie esistenti in natura in quel territorio erano le migliori per esso: devono mantenersi. Non si deve “prendere” qualcosa di fisso né riversare sostanze nell’ambiente, altrimenti le “risorse” di partenza si esauriranno e i “rifiuti” si accumuleranno, recando ben presto danni intollerabili.<br /><br />- Non esistono specie “utili”, “nocive” e “innocue”, esiste solo l’equilibrio globale.<br /><br />- Una forma di “crescita” materiale all’interno della comunità significherebbe la rottura di un equilibrio: si deve evitare.<br /><br />- Tutto quello che si preleva deve essere utilizzato al massimo e restituito in qualche forma alla Terra. Non si può ingannare il ciclo complessivo della Vita: ogni “vittoria” è illusoria e apparente. Un aumento di qualcosa in qualche momento e in qualche punto, corrisponde a una degradazione in qualche altro punto, o tempo, o attività.<br /><br />Il modo di funzionare della Natura, cioè per cicli, è l’unico modo in cui può esistere indefinitamente la Vita come complesso.<br />Non si possono scegliere o rifiutare questi principi, perché non si tratta di stabilire se questo sia bene o male, meglio o peggio, ma di constatare che solo così si può continuare a vivere su tempi lunghi.<br />Non mettetevi in testa una mentalità “da pionieri”: sarebbe la vostra fine. Il vostro angolo di mondo non è una cosa da conquistare, ma voi siete una parte di esso. Dovete convivere come una parte di un Insieme. Non c’è proprio niente da conquistare, né da modificare: l’ambiente naturale non può essere “migliorato”, potete solo integrarvi meglio in Esso. Non si può migliorare quello che ha impiegato quattro miliardi di anni per divenire ciò che è.<br />Non dovete temere troppo le “scomodità” anche se, dato che provenite da un modello che aveva eletto il “comfort” a una specie di religione, il passaggio psicologico sarà difficile. Pensate che nelle città dove era massimo il consumo degli oggetti apportatori del cosiddetto benessere, erano massime anche le nevrosi, l’angoscia, le malattie mentali e la delinquenza. Quindi non poteva trattarsi di un vero benessere. Dovrete invece essere sempre in situazione di atteggiamento mentale sereno. Questo è essenziale.<br />Non c’è bisogno di molto per essere sereni: un po’ di cibo e calore, e un po’ di cultura, ma nel senso più aperto del termine. Il difficile sarà cancellare i miti della civiltà precedente: l’esaltazione dell’ego, la crescita, lo sfruttamento.<br />Solo con una nuova metafisica potrete sopravvivere culturalmente, ma non è poi tanto nuova: è la metafisica animista-panteista di quasi tutte le culture umane, e tutte hanno vissuto millenni, fino all’arrivo della sopraffazione, fino all’arrivo del fanatismo accrescitivo di questi due secoli. Due secoli contro milioni di anni.<br />Ricordatevi di non fare contrapposizioni del tipo di quella umanità-natura o umanità-animali (purtroppo tanto comuni oggi): la specie umana è una specie animale, la specie umana è parte integrante della Natura. Si può essere lieti di questo, e ciò non significa affatto il materialismo, anzi significa un profondo senso religioso, il senso di un’appartenenza anche spirituale all’Unità Totale, all’Unica Mente.<br />Non prendete mai posizioni del tipo di “lotta contro le forze ostili della natura”, perché sono queste le posizioni che hanno causato la catastrofe del modello da cui provenite.<br /><br />4. - Allenamento<br />“Staccarsi progressivamente dall’esistenza è l’insegnamento tradizionale dell’India, l’immersione frenetica nel vivere è l’inarrestabile malattia dell’Occidente. Abbiamo esportato dappertutto questo nostro miasma, eccitatore di violenza, spegnitore di sorriso.”<br />(Guido Ceronetti)<br /><br />Ora torniamo al tempo presente. Questo breve capitolo è dedicato a qualcosa che potete cominciare a fare subito: un allenamento fisico-spirituale.<br />Siete qui, in mezzo a un mondo tecnologico e inquinato. Automobili corrono ovunque. Questa è la realtà di oggi. Che fare, per allenarvi, per essere pronti al cambiamento, senza soffrirne inutilmente? Non potete lasciare tutto, anche perché siete parte di quanto vi sta attorno.<br />Provate a fare qualcosa di diverso, o di normale, ma con atteggiamenti nuovi. Prendete un sacco in spalla e girate per le montagne: le Alpi si prestano bene. Non sarà necessario che saliate su particolari cime; se ne avete voglia, al momento potete anche salire. Da una valle all’altra, dormendo dove capita: rifugi, o baite, o fienili. Ricordate l’atteggiamento: non dovete competere con nessuno e con niente, né arrivare prima né dopo di alcunchè. Non avete alcun tempo da rispettare. Se piove o c’è la nebbia, godetevele: anch’esse hanno la loro magica bellezza. Anche la pioggia ha il suo bello, e le nuvole sono meravigliose.<br />Il tempo qualche volta è bello, e qualche volta no.<br />L’atteggiamento mentale deve essere di non-competizione, mai di conquista. Non dovete dimostrare niente a nessuno, neppure a voi stessi; non dovete competere né con il tempo, né con la montagna, né con niente altro. L’esperienza sarà rasserenante, di percezione della Totalità, sentendovi parte della Natura, in posizione di non-contrasto, di non-dualità. Il camminare lento e ritmico della salita concilierà questa integrazione. La respirazione profonda e il ritmo lento vi saranno amici. Non sarà necessario “raccontare”, né “dimostrare” niente. Non preoccupatevi della fatica: niente vi aspetta, niente ha fretta. Il corpo non si affaticherà, se in armonia con il profondo.<br />Potete sostare quando volete, parlare dell’Essere, o dell’ultima pianticella incontrata. Ma non strappatela, non raccogliete. Potete prendere un fungo, se poi lo mangiate quella sera; o fragole e mirtilli. Altrimenti lasciate stare la Manifestazione, anche voi siete Quella.<br />Potreste andare anche in pianura, ma in Europa questa possibilità è perduta. Sulle montagne potete ancora. Tenetevi lontani dal fondovalle invaso dalle auto; state lontani il più possibile anche dalle funivie. Potete anche pensare a nulla, o al Nulla. Fermatevi quando volete, dove volete. E’ un’esperienza non di alpinismo, ma soprattutto di integrazione nella Natura alpina.<br />Non dovete conquistare né dimostrare niente, neanche a voi stessi. Non c’è da lottare con la montagna: non ha senso. L’io deve attenuarsi, non esaltarsi. Solo contemplazione, ritmo, e percezione. Oppure Nulla.<br />Anche se siete materialista, sarà un’esperienza edificante: vi riposerà. Lasciate a casa l’automobile, scenderete ben lontano da dove siete partiti. Per recarvi alla partenza e per tornare dopo, usate il treno, o le corriere.<br />Poi vi disintossicherete dall’inquinamento: sulle montagne ci sono gli ultimi posti con aria e acqua pure. Oltretutto, essere abituati a camminare in montagna vi sarà utile, per quando torneranno le comunità alpine.<br />Meglio se siete in pochi, o un gruppetto, meglio se siete metà e metà, perché altrimenti, nel dialogo, vi mancherebbe l’altra metà del cielo.<br />Se non siete materialista, vi sentirete maggiormente parte della Mente Universale, della Natura, e questo contribuirà all’allentamento dell’ego. Assaporate il piacere della non-competizione. Se vi salta in mente di salire una cima, non è per conquistarla, ma per integrarvi con una natura di quota maggiore. O per niente, senza nessun altro scopo.<br />Potreste scoprire che, dopo avere magari provato a fare viaggi in treno, auto, aereo, pullman e nave, il mezzo più bello e completo per passare qualche settimana girando è viaggiare a piedi. E’ il mezzo meno pericoloso e più soddisfacente. Chi seguiva le carovane al passo dello yak o del cammello viveva anche durante il viaggio, senza preoccuparsi della “rapidità”. Cercate di dimenticare la velocità, questo valore così strano della nostra epoca e della nostra civiltà.<br />Potete fare anche altri tipi di allenamento: imparate a mungere, a fare il burro e il formaggio, a tagliare l’erba per ricavare il fieno. Siate dolci con gli altri animali: fra voi c’è uno scambio reciproco di favori, siete in simbiosi con essi.<br />Imparate a rispettare tutto il mondo vegetale: non ne potete fare a meno. E vi ricompenserà largamente.<br />Se vi è più congeniale il mare, passate qualche settimana su un’isoletta, con una barca a remi. Giratela a piedi, imparate a sopravvivere.<br /><br />5. – Le erbe spontanee e i funghi.<br />Premesse – Foglie, germogli, licheni – Radici, rizomi, tuberi, bulbi – Fiori, nettare, polline - Frutti, bacche, noci, semi – Piante commestibili – I funghi.<br /><br />6. – L’orto<br />Scelta della posizione – Impianto dell’orto – Attrezzi – Lavori di manutenzione – La semina – La costruzione del semenzaio – Il trapianto – La sarchiatura – Coltivazione degli ortaggi e loro consociazioni – Aglio – Asparago – Barbabietola – Bietola – Carciofo – Cardo – Carota – Cavolo – Cetriolo – Cipolla – Fagiolo – Fava – Finocchio – Fragola – Lattuga – Melanzana – Patata – Pisello – Pomodoro – Porro – Radicchio o cicoria – Ravanello – Rapa – Scorzonera – Sedano – Soia – Spinacio – Topinambour – Valeriana – Zucca – Zucchine – I metodi di conservazione.<br /><br />7. – L’allevamento<br />Premesse – Mucche – Capre – Pecore – Conigli – Polli.<br /><br />8. – Le api<br />Premesse – Metamorfosi – La regina – Le operaie – Il fuco – La vita delle api – L’arnia razionale – L’uso del foglio cereo – La famiglia – La visita alle famiglie – La cattura dello sciame – Il saccheggio – Il raccolto principale.<br /><br />9. – La pesca. Cenni di autodifesa<br />La pesca – Cenni di autodifesa.<br /><br />10. – Lavori di manutenzione<br />Muri e intonaci – Pavimenti – Porte e finestre – Isolamento termico e dall’umidità – Conclusioni.<br /><br />11. - L’energia<br />Premesse – Energia solare – Irraggiamento e insolazione – Conversione in energia termica – Riscaldamento di acqua – Riscaldamento di ambienti – Accumulazione del calore – Minicentrali idroelettriche – Misura della portata – Misura del salto – Piccole dighe – Alternatori – Conclusioni.<br /><br />12. – La piccola comunità<br />“E’ la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare e di noi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi: perché sono tutti figli di una stessa madre e il loro padre è un unico Spirito. Forse che il cielo non è un padre e la terra una madre, e non sono tutte le creature viventi con piedi, con ali e con radici i loro figli?”<br />(Alce Nero)<br /><br />Si è parlato del cibo e del calore: cose essenziali per sopravvivere. Per il mangiare, ricordiamo qualcosa sull’alimentazione. Siamo mammiferi dell’ordine dei Primati, cioè scimmie: l’alimentazione più sana è la più simile a quella delle altre scimmie, con poche varianti. Un po’ di tutto, ma soprattutto radici, frutta, verdura, uova, latte, formaggio, burro; poca carne.<br />Importante poi stare al caldo d’inverno, con la minima fatica. Stabilite principi moralmente sani: niente furti o razzie, altrimenti riceverete altrettanto dalle altre comunità, e non vi salverete. Dopo i primi tempi, si potrà pensare anche a scambi, collegamenti fra le comunità, attraverso gli alti passi, a piedi o con i muli. Questi scambi ci sono stati per secoli: i mezzi di locomozione umani sono rimasti inalterati per migliaia di anni, fino a due o tre secoli fa. Sul mare le vele e i remi sono stati praticamente gli stessi per migliaia di anni, fino al 1700. Cavalli, muli, cammelli e yak erano gli stessi. Molti alti passi alpini erano più frequentati qualche secolo fa di oggi: c’erano più contatti fra le valli che collegamenti con le pianure, troppo pericolosi.<br />E’ importante che l’estensione e la natura del territorio siano tali da consentire la vita della comunità per un tempo indefinito, senza alterazioni. Il numero di persone deve essere compatibile con questo fatto essenziale.<br />Per avere un’idea di come si potrà vivere, diamo uno sguardo al passato, a cosa è successo sulle Alpi attraverso i secoli, a come e dove si siano formate le abitazioni, di che tipo e con quali esigenze.<br />I villaggi e le dimore stagionali dei pastori non sono costruite ovunque. Bisogna evitare i terreni minacciati dalle frane, la vicinanza di corsi d’acqua che possano gonfiarsi troppo allo scioglimento delle nevi, evitare i canaloni delle valanghe e tutti i luoghi dove le valanghe possono scendere.<br />Oltre ad essere protetta da queste minacce, la posizione deve essere tale da presentare vantaggi per la vita quotidiana: acqua sufficiente nei paraggi, vicinanza del bosco, per la protezione contro le frane e le valanghe, per essere riparati dai venti e per poter disporre di un po’ di legna.<br />La casa è inoltre situata in modo da rendere possibile l’utilizzazione del terreno: se il foraggio è lontano, meglio tenere fienili sul posto, portandovi eventualmente gli animali. A volte anche le abitazioni possono essere sistemate per soggiorni stagionali, per seguire il pascolo degli animali.<br />Nelle alte valli, dove a volte i corsi d’acqua scendono a gradini successivi separati da cascate o gole, in genere ogni gradino può essere occupato da un piccolo villaggio. Di solito il versante soleggiato, rivolto a Sud o ad Est, è coltivato e popolato, mentre il versante in ombra, volto a Nord o ad Ovest, è quello del bosco.<br />I versanti delle valli glaciali sono spesso troppo ripidi: sono favorevoli all’insediamento i contrafforti rocciosi che dominano le vallate, fra le gole tagliate dagli affluenti.<br />Nelle sedi di alpeggio le abitazioni sono molto semplici: la porta è bassa e si entra in un locale unico, dal pavimento in terra battuta, dove il focolare occupa un posto importante, di fronte alla porta. I mobili sono una tavola, degli sgabelli e una panca, alcuni ripiani per il vasellame e gli utensili in legno.<br />La stalla è spesso separata solo da una grossa trave orizzontale, e i pastori dormono in un soppalco sopra gli animali.<br />La coabitazione col bestiame risolve il problema del riscaldamento, ed un tempo era molto diffusa in montagna. Le dimore furono poi migliorate, separando la camera dalla cucina, dotata di una stufa a legna. Comunque l’uso di mantenere la stalla al piano inferiore dell’abitazione è continuato sempre ed è veramente utile per il riscaldamento.<br />Vi sono poi i ripari più semplici, che possono divenire utilissimi in condizioni di emergenza, e che sono sorprendentemente simili in tutte le località di montagna, sia sulle Alpi che sulle montagne dell’Asia Centrale. Negli alti pascoli di quasi tutte le Alpi, gruppi di capanne di legno o di pietra a secco servono da riparo a persone e animali: spesso hanno resistito centinaia di anni. Tendono poco a poco ad essere sostituite da una stalla allungata con al piano superiore o ad una estremità un’abitazione separata per i pastori.<br />L’agricoltura dei villaggi più elevati è piuttosto difficile per la brevità del periodo favorevole, per le basse temperature e per il rilievo accidentato.<br />Per vivere in condizioni di autosufficienza, ci si deve sforzare di praticare tutti i tipi di colture possibili, anche se le rese sono minori che in pianura. Comunque la coltura della patata è una buona assicurazione contro la fame. Ma è necessario ripristinare tante altre coltivazioni possibili, che sono scomparse dalla montagna solo per la facilità dei trasporti dalla pianura. Ma dovranno ritornare: si sono date alcune indicazioni nel capitolo sull’orto; molte di quelle coltivazioni sono possibili, a seconda delle diverse altitudini.<br />Si sono ottenuti raccolti di segale e grano anche in montagna, magari seminando in estate e raccogliendo solo l’anno seguente, cioè con un raccolto ogni due anni. In qualche caso, si spande della terra sulla neve che tarda a fondere e si semina lì sopra per anticipare la stagione. A volte si installano degli essiccatoi, isolati e coperti, dove i cereali finiscono di maturare. L’irrigazione con piccoli ma lunghi canaletti può riuscire assai utile. Qualche muro di pietra a secco può attenuare la pendenza e frenare l’erosione. La montagna è adatta soprattutto all’allevamento e alla pastorizia; tuttavia, per mantenere condizioni di autosufficienza e variabilità, è necessaria anche l’agricoltura tradizionale, cioè le coltivazioni.<br />Bisogna fare attenzione che il pascolo non sia troppo intensivo e non porti a una degradazione del terreno; se c’è questo pericolo, occorre provvedere ad un pascolo a rotazione, con riposo periodico del terreno durante i mesi di vegetazione.<br />Ricordiamo ancora la funzione essenziale del bosco; dove c’è il bosco la valanga non si scatena: solo eventi eccezionali possono superare la cintura protettiva della foresta alpina. Poi il bosco fissa il suolo. I meriti della foresta di montagna sono universalmente noti. Il bosco va amministrato con molto discernimento: gli eventuali tagli devono essere tali da lasciare inalterato il complesso boschivo.<br /><br />13. – La sopravvivenza psicologica e culturale<br />“La principale caratteristica psicologica degli europei è la smisurata tendenza agli scatti di attività, sovente accompagnati da un regresso. Tutta la storia delle civiltà europidi è una storia di periodi brillanti e fortemente espansivi, accanto a periodi di netto regresso. Un’altra caratteristica un po’ negativa, è l’invadenza e l’intransigenza. Praticamente solo in Europa si ha il fenomeno di gente che si ritiene superiore ad ogni altra, che elabora sistemi di pensiero e di vita che sono gli ‘unici veri’ e gli ‘unici giusti’”. (Ugo Plez, La preistoria che vive)<br /><br />Già si sono fatti diversi cenni sul fatto che non si deve pensare alla sopravvivenza come un breve periodo di abbrutimento in cui si pensa solo a mangiare e dormire. Nessuno dei cosiddetti “selvaggi” ha un simile comportamento. Anzi, la maggior parte del tempo di questi modelli culturali è dedicato all’aspetto “magico”, o spirituale, della vita. Non sgobbano affatto tutto il giorno per procurarsi il cibo, come ci raccontavano a scuola.<br />Solo l’immensa superbia della cultura europea ha fatto sì che si autoproclamasse l’unica “civiltà” e gli altri tutti minorati. Ma la vita spirituale di quelle comunità è sempre stata molto intensa.<br />Dovete cercare di salvare molti libri, e appena passati i primi periodi, organizzare dei corsi, delle specie di scuole in cui tutti si scambiano le idee e le esperienze, di pensiero e di conoscenze pratiche. Organizzate corsi permanenti, salvate quanti più libri potete, se possibile di diversi modelli culturali, anche quelli orientali e quelli che riportano il pensiero dei modelli animisti-panteisti, asiatici, amerindiani, oceaniani. Tenete presente quali sono stati i mali dell’Occidente, che l’hanno portato alla fine, quali i principi che non si possono ignorare.<br />Salvate il Vangelo, le Upanishad, i Sutra buddhisti, se riuscite qualche libro di Alan Watts, Il Signore degli Anelli di Tolkien, qualche testo di matematica, fisica e scienze naturali. Magari non dimenticate questo manuale, e altri analoghi.<br />Saranno preziosi gli scambi fra chi conosce e chi sa fare: tutti devono dedicarsi a entrambi gli aspetti. I pastori saranno preziosi quanto le persone cosiddette colte. Le scuole saranno per bambini e per adulti, permanenti; allievi e insegnanti potranno benissimo scambiarsi i ruoli.<br />Non dovete abbrutirvi a una pura sopravvivenza materiale, perché non reggerebbe e degenererebbe ben presto.<br />Attenzione a non perpetuare l’errore biblico, l’errore antropocentrico, che tanti guai ha provocato nel mondo. Non ci potranno mai essere atteggiamenti di “lotta contro le forze della natura”, perché ci si troverebbe come le cellule che lottano contro il corpo cui appartengono.<br />Si tenga sempre presente la Parità: la concezione globale comporta la sostanziale parità fra tutte le manifestazioni del Principio Vitale, fra tutti gli esseri viventi. Non ci possono essere lotte o contrasti fra le parti componenti un’Unica Realtà.<br />La parità fra i sessi deve essere evidente. Alternarsi in tutto deve essere una cosa spontanea e ovvia: a scuola, nel lavoro, nelle case, sempre alla pari, sempre alternati. Qualunque associazione, riunione, consiglio, di qualsiasi natura, deve contenere persone dei due sessi in numero circa uguale. Per evidenti motivi statistici: non c’è alcun motivo perché avvenga diversamente.<br />Così non si esclude nessuno da quella parità totale di partecipazione e di attività da cui tante culture hanno cercato di escludere il sesso femminile, relegando le donne in ruoli secondari. Anche i concetti di “secondario” e di “primario” devono sparire.<br />Non dimentichiamo poi la fine che sta per fare il mondo guidato praticamente solo dai maschi: una catastrofe, un fallimento. Almeno l’apporto decisionale determinante del sesso femminile forse poteva salvare la situazione. La donna è molto meno inquinata dalla manìa economicista-tecnicista propria della civiltà industriale, appunto perché è stata finora tenuta emarginata dal sistema.<br />Non si scambino per verità quelli che sono solo schemi mentali propri di un modello: i difensori di posizioni “tradizionali” sosterrebbero con lo stesso vigore le posizioni opposte se si fossero trovati in una società che le sosteneva. Unica soluzione equa è la parità totale, con turni di tutte le attività, sociali, casalinghe, decisionali, lavorative. L’impegno biologico femminile per motivi di gravidanza e allattamento, supponendo una vita media attiva di 40-50 anni e un numero di due figli, per evidenti motivi di mantenimento della condizione stazionaria, è circa del 5% del tempo totale, e quindi tranquillamente trascurabile.<br />I “compiti diversi” sono stati un pretesto di questo modello per tenere le donne in posizione subordinata. I vari compiti vanno eseguiti alla pari in tutto, semplicemente perché non c’è alcun motivo perché non lo sia. Alla vita della comunità devono partecipare tutti in ugual misura, così anche a tenere puliti e in ordine gli ambienti e a far da mangiare. Perfino la maggior parte delle specie di uccelli si alternano rigorosamente sul nido, nella cura dei piccoli e nel procacciare il cibo.<br />Se nella comunità non devono manifestarsi dualismo, competizione, litigio, non deve manifestarsi neppure il concetto di proprietà. Esso non è un “istinto” proprio della natura umana, tanto è vero che forse esistono lingue in cui non si possono esprimere i concetti di mio-tuo-suo e popoli che non sono in grado di comprenderne il significato (Boscimani e Ottentotti?). Naturalmente sono stati etichettati come “estremamente primitivi”: sono comunque in grado di esprimere concetti di difficile comprensione per una mente europea, come quello di fare scarsa distinzione fra “sé stessi” e “l’ambiente naturale esterno”.<br />La migliore soluzione al problema della proprietà è data ancora dalla risposta di Nuvola Rossa agli invasori europei che volevano “comprare” la parte migliore del territorio Lakota: “La terra è del Grande Spirito. Non si può vendere né comprare.” Naturalmente i bianchi se la presero con le armi.<br />Si può vivere benissimo senza i concetti di proprietà e di padrone. Come pure sarà bene lasciar perdere il concetto di specializzazione, e il concetto di chi serve e chi è servito. Sono tutti schemi mentali di questo modello.<br />Non deve esistere alcun “rango”. Nessun primato, nessuna gara: e si vivrà più tranquilli e sereni, senza la nevrosi del “successo”, la sopraffazione sugli altri, sull’ambiente, sulla Natura, come se fosse qualcosa di separato, da conquistare. Ma sapete che non lo è. E senza la manìa della “produzione”.<br />Che non si formi la distinzione, il dualismo fra “credenti” e “atei” perché non ha alcun significato, era solo un artificio della cultura occidentale, dove si era creata anche l’assurda mentalità della “religione vera” e delle “religioni false”.<br />Niente “titoli” né alcun altro simbolo o segno di distinzione o di élite: sarebbero l’inizio di una spirale senza speranza.<br />Niente “potere”: la ricerca del potere è solo la rabbiosa consolazione di chi non ha niente di meglio, cioè non ha la serenità d’animo. Chi aspira al potere e alla ricchezza, a “essere di più”, all’esaltazione dell’io, cerca in realtà un surrogato alla serenità che gli manca. Deve essere generale l’atteggiamento di rispetto e di non-violenza, anche verbale. (*)<br />Ricordatevi l’atteggiamento di non-competizione, non-litigio, non siete in competizione con la natura, ma siete una parte di Essa. Non dovete conquistare niente. E’ dalle idee di competizione e conquista che è venuta la catastrofe della civiltà da cui provenite. Si può vivere benissimo senza i concetti di più-di meno, superiore-inferiore, ecc.<br />Occorre avere sempre un atteggiamento di non-dualismo, non-contrasto, non-litigio. Non si devono riformare l’antagonismo e la competizione. Non deve ricomparire l’ambizione.<br />Ci si fermerà molto più spesso ad ammirare un fiore o un albero, a guardare la luna e le stelle, ad osservare il volo degli uccelli, a pensare. Intenti a ricercare il successo, impegnati per avere, per ottenere qualcosa, tesi nella competizione, ci eravamo dimenticati di vivere, ne avevamo perso completamente il gusto.<br />Per chi ce la farà, la catastrofe del sistema non sarà certamente il peggiore dei guai. Si potrà finalmente vivere con la meravigliosa sensazione di non dover essere al centro di niente, di fare parte della Natura e basta.<br />Quando arriverà la notizia che un’altra grande città è stata cancellata dalla faccia della Terra, o che è preda del disordine e della morte, pensate che è l’Organismo Totale che si difende, è la Natura che reagisce al suo male. Alcuni diranno che Dio punisce gli umani per i loro “peccati”, altri tireranno fuori tutti i motivi possibili, economici, politici e sociali. Ma ormai non poteva non succedere: in fondo dire che la Natura si difende, o Dio punisce, non fa una grande differenza, se non di linguaggio. La non-conformità alle leggi della Natura è stata la “colpa” da cui si è difesa, e quindi la cosiddetta “punizione”.<br />Se vi capitasse di sentirvi tristi per essere andati “così indietro”, rideteci sopra: i concetti di “civiltà”, “civilizzazione”, “progresso”, e simili, sono stati solo artifici del modello da cui provenite per autonominarsi superiore. Non esiste alcun modello “più civile”, esistono solo diversi modelli culturali umani da confrontare su un piano di parità. La vostra difficoltà è quella di dover vivere due modelli diversi nella stessa vita e dover cambiare modello culturale a metà dell’esistenza, ma non c’è alcun “regresso”. Il metro economico di valutazione è stato solo una sopraffazione del precedente modello per fagocitare e distruggere gli altri. Ma ora sta pagando il conto.<br />La quantità di oggetti, indice di valore della civiltà industriale, non ha mai fatto felice nessuno.<br />La parte di vita che vi resta nella comunità di sopravvissuti potrebbe essere molto più serena di quella da cui provenite, di quella delle città, che ora sta semplicemente rendendo conto di quanto ha fatto verso la Vita.<br />Quindi tranquillizzatevi, riprendete a lavorare serenamente, senza “sforzi”, senza “mete”, senza spasmodico fanatismo, finalmente senza preoccuparvi di essere di più, di dover fare aumentare qualcosa, sia esso il conto in banca o il prodotto nazionale lordo, né di dover superare o confrontarvi con altri, con fantomatici “concorrenti”.<br />Nessuno è mai scoppiato di felicità per essere importante, famoso, o per avere raggiunto il “successo”. Anzi ben pochi possono condurre una vita serena in queste condizioni. Non siete al centro proprio di niente, ma questo è motivo di lieta serenità, non di tormento. Siete un essere vivente che compone un Tutto insieme agli altri esseri viventi. Non va ripetuto l’errore biblico: niente è al vostro servizio e voi non siete al servizio di nulla.<br />La comunità non dovrà essere regolata da alcun particolare tabù, il che equivale a dire che sarà basata sul principio della parità totale, la Grande Parità. In sostanza, fra tutte le manifestazioni del Principio Vitale.<br />Le “civiltà” sono solo una serie di usi, costumi e schemi mentali che fa chiamare “primitivo” o “sottosviluppato” chi ha usi diversi.<br /><br />(*) Questo sembrerà impossibile a molti lettori, ma è solo perché siamo terribilmente immersi nella mentalità dell’Occidente. Invece il nostro concetto di autorità non è indiscutibile. Si riportano, come esempio, alcuni brani tratti da un articolo di Walter B. Miller dal titolo Due concetti di autorità:<br />“Quando i mercanti europei di pellicce, i soldati ed i missionari cominciarono a trasferirsi circa nel 1650 verso l’interno della regione dei Grandi Laghi trovarono un gruppo di tribù algonchiniane del centro…questi stessi Europei furono colpiti da ciò che parve loro essere un fenomeno quanto mai rimarchevole. Gli Algonchini del centro sembravano compiere le loro attività di sussistenza, religiose, amministrative e militari in virtuale assenza di qualsiasi forma di autorità…uno dei primi europei che ebbero contatto con le tribù centrali fu Nicholas Pierrot, un mercante di pellicce francese e coureur de bois. Egli registrò queste impressioni circa nel 1680: la subordinazione non è la regola di condotta tra questi selvaggi; il selvaggio non sa che cosa vuol dire ubbidire…è più producente pregarlo che comandarlo…il padre non si azzarda ad esercitare l’autorità su suo figlio, né il capo osa dare ordini ai suoi soldati…se qualcuno si impunta su qualche movimento proposto, è necessario convincerlo per dissuaderlo, altrimenti manterrà il suo stato di opposizione…”.<br />Si ricorda che la parola “selvaggi” è usata solo per riportare esattamente la nota di tre secoli fa. E’ evidente che non esistono “selvaggi” e che la civiltà occidentale non ha alcun motivo di superiorità nei confronti degli indiani d’America, o di nessun altro modello, se non la forza bruta delle armi.<br /><br />14. - Conclusioni<br />“La visione ideologica che ci fa credere unici e diversi cioè inconfondibili e migliori di tutti gli altri esseri viventi sul pianeta, è solo un curioso delirio di grandezza” (Fabio Ceccarelli)<br /><br />“Forse bisogna cercare nella natura, attorno a noi, la spiegazione del destino dell’Occidente e anche i presagi per il nostro avvenire.<br />I lemmings sono piccoli roditori del Nord-Europa e dell’Asia simili ai nostri topi campagnoli. In determinati periodi essi abbandonano le Alpi della Scandinavia in gruppi numerosi, come guidati da un misterioso suonatore di flauto, e si dirigono verso il Mare del Nord o il Golfo di Botnia. Lungo questo tragitto, che è il loro senso della storia, essi subiscono gli attacchi dei carnivori o degli uccelli predatori che li distruggono a migliaia. Malgrado tutto, essi proseguono la loro strada e, raggiunta la meta, si gettano nel mare e vi annegano.<br />Le cavallette hanno anch’esse un simile senso della storia. Molte specie, tra cui la Locusta migratoria, vivono nella natura senza commettere danni: gli individui sono solitari e sparsi. A un determinato momento, per una ragione ancora sconosciuta, queste specie pullulano; le giovani cavallette che nascono e crescono in popolazioni fitte hanno colore e forma diverse: sono più grandi e di colore più chiaro, spesso di un bel verde.<br />I naturalisti ne hanno fatto una specie diversa: la Locusta gregaria. Esse si riuniscono in gruppi numerosi e, quando sono adulte, se ne volano tutte assieme, costituendo quelle nuvole di cavallette che i contadini del Mediterraneo temono moltissimo: esse avanzano a balzi enormi, nella stessa direzione inesorabile per molti giorni. Possono devastare ogni vegetazione in poche ore, o abbattersi su una steppa per marcirvi in mucchi al sole oppure precipitarsi a nugoli nel mare.<br />Che cosa potrebbero dire i lemmings se potessero scrivere la storia di una delle loro migrazioni? “Siamo in marcia verso un felice domani, la nostra nazione fortemente strutturata cresce di ora in ora, e nonostante vari attacchi, progrediamo nella stessa direzione, conservando la nostra organizzazione che, sola, permette all’individuo di marciare verso quel progresso che intravediamo già, tutto azzurro, ai piedi delle montagne”.<br />Le cavallette intonerebbero un canto di trionfo: “Noi procediamo in avanti. L’universo potrà nutrirci per un secolo, poichè siamo in via verso la ‘planetizzazione’ della nostra specie”.<br />La storia ha un senso per le cavallette, per i lemmings e per la civiltà occidentale: essa sfocia in un suicidio collettivo, prima della ‘planetizzazione’ di una specie. Ogni individuo vede però in questo slancio ultimo una marcia verso una situazione migliore. Più i lemmings si allontanano dal punto di partenza, dicono i naturalisti, più sono eccitati; nulla li può fermare: davanti a un ostacolo sibilano e digrignano i denti per la collera.<br />Anche noi, ben lontani ormai dalle nostre origini, sentiamo profondamente che nulla deve intralciare la nostra marcia verso ciò che chiamiamo il Progresso.”<br /><br />Queste righe sono riportate integralmente da un libro del noto antropologo francese Servier (Jean Servier, L’uomo e l’Invisibile, Ed. Rusconi, 1973- il testo in francese è del 1967).<br />Ma non tutti i lemmings finiscono in fondo al fiordo: alcuni restano in testa alla valle, altri, che sono ai margini della migrazione folle, ne escono in tempo e si acquattano salvandosi la pelle. Anche delle locuste, molte sopravvivono.<br />Abbiamo altri esempi di studiosi che hanno ben compreso quanta superbia sia insita nella cultura occidentale, fra cui Claude Levy-Strauss, accademico di Francia, e Marcel Griaule.<br />Ma nessuno dà ascolto a questi antropologi o ad altri rari scienziati, che sono spesso considerati studiosi da lasciare in pace, “specialisti” che non devono avere influenza sul pensiero corrente. Solo i tecnocrati e gli economisti si considerano i portavoce della verità.<br />Così la civiltà industriale va allegramente verso il suo destino.<br />Cambiare totalmente modello culturale a metà della vita non è facile. Anzi, è difficilissimo. Troppi sono i condizionamenti cui siamo stati sottoposti: il mito del progresso, del benessere, degli oggetti, della competizione. Soprattutto lo squallido, ma continuo e inesorabile invito ai consumi che ci ha perseguitato. Tanto da credere molte idee come ovvie, come “bisogni naturali della specie umana”. Ma non lo sono. L’umanità è vissuta tre milioni di anni senza questi miti, questi tabù. Si tratta solo di schemi mentali, non di tendenze ovvie e inarrestabili. Il concetto di “tenore di vita” serve solo a far lavorare le fabbriche.<br />Liberiamoci dalla terribile barriera del condizionamento. Solo così potremo avere qualche speranza di sopravvivere, senza dover necessariamente entrare in una competizione di violenza e di morte. L’impero dei consumi ha gli anni contati: è ormai vicino ai limiti naturali della Terra.<br />Bisogna liberarsene, che lo vogliamo oppure no. Torniamo dove avremmo dovuto sempre restare, nell’abbraccio della Natura: e tenteremo di sopravvivere. La sopravvivenza psicologica, la percezione di queste realtà, dei motivi per cui la civiltà industriale sempre-crescente va verso il suo immancabile destino è necessaria quanto la capacità di cavarsela procurandosi cibo e calore.<br />E non possiamo vivere senza una metafisica, una convinzione globale. Per questo si è accennato, oltre che a una sopravvivenza fatta di cibo e calore, anche a qualcosa che ci tenga in vita spiritualmente. Ma non devono sorgere “padroni spirituali” o organizzazioni similari, o depositari della verità. Non servono fanatici, ognuno può avere la sua metafisica; oppure no, ma senza costrizioni, o violenze psicologiche, o imposizioni occulte, o minacce di “punizioni” in questa o in un’altra vita.<br />Il cerchio si chiude, l’antica simbologia della Ruota ritorna. L’umanità, dopo avere constatato a caro prezzo l’impossibilità di sopraffare il resto del mondo, dovrà tornare a vivere nella Natura. Una specie animale, senza poter più chiamare “primitivo” alcun modo di vivere. Sarà un equilibrio non automatico, ma consapevole. L’umanità deve tornare a vivere per quello che è, cioè Natura. Ora è staccata, perduta, angosciata, perché nella posizione opposta.<br />Facciamo parte, assieme a tutti gli altri esseri viventi, di un’Unica Entità, di cui la Natura è la Manifestazione. La via verso la serenità è la consapevolezza di questo, cioè la progressiva attenuazione dell’ego, individuale e collettivo: la fine dello stato di “egoità”.<br /><br />-------------------<br />Forse avete comprato questo libro pensando di trovarvi notizie utili a sopravvivere dopo un naufragio o un incidente aereo, fino all’arrivo dei “soccorsi”. Sarete rimasti sorpresi o delusi, o forse piacevolmente meravigliati. Da quella che avete finora chiamato “civiltà” non potrà arrivarvi alcun soccorso: quando sarà accaduto l’inevitabile, dai resti sbandati di quella che era stata la civiltà industriale potranno venirvi solo violenza o morte.<br />Ma si è voluto ricordare che non ci sono soltanto la violenza e le armi, come consigliano i “survivalisti” USA secondo il loro classico stile, ma che si potrà sopravvivere anche in clima di accettazione e di non-violenza. L’umanità potrà vivere in molti modi diversi, purché il suo stato sia l’Equilibrio, la sua guida sia la Natura ed il suo scopo la Conoscenza. Occorre però saper affrontare il periodo di transizione, il periodo dello sfascio. E non sarà facile. Spero che questo manuale vi abbia fatto intravedere questa possibilità.<br /><br />(Guido Dalla Casa, anno 1982)<br /><br />tratto da:<br />Guido Dalla Casa, GUIDA ALLA SOPRAVVIVENZA<br />Imparare ad essere autosufficienti alle soglie del crollo della civiltà tecnologica<br />Ed. MEB - 175 pagine-24 ill.<br />ISBN 88-7669-133-2<br />(Ediz. 1983, 1986,1988,1989,1996)</div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-71489382077480803092007-10-29T15:39:00.000+01:002008-11-13T15:15:06.625+01:00"L’armonia terrestre nostra vocazione" di Jacques Ellul<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjh4t3JkeOHKTHBy_QCyjMVWRaoI0h-2ZnOdvYzyBcG47-2QZXVsDxj5X13zpUzQoVF8ZtRXuK2vugvqMn9sZETeQx1eZmdiCISPlf704TeD68UNSoHGAPpZmQBO7TSqir4rKhsLrxwpBQ/s1600-h/copertina06.jpg"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5126769933662032034" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; CURSOR: hand" height="227" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjh4t3JkeOHKTHBy_QCyjMVWRaoI0h-2ZnOdvYzyBcG47-2QZXVsDxj5X13zpUzQoVF8ZtRXuK2vugvqMn9sZETeQx1eZmdiCISPlf704TeD68UNSoHGAPpZmQBO7TSqir4rKhsLrxwpBQ/s320/copertina06.jpg" width="164" border="0" /></a><br /> Dio creò un giardino che si chiamava Eden per porvi l’uomo. Al centro di tutta la creazione, in mezzo agli astri e al cosmo, crea un Eden, che è un giardino, e il cui nome significa voluttà, delizie, piacere. Terra, nostro Eden, nostro piacere, e tutto infatti vi era concepito per il piacere dell’uomo. Tutto vi era buono, bello, armonioso e puro, compresa la voluttà. Poi, lo strappo. Ma questa terra, questo luogo unico fatto per lui, è destinato a questa corrispondenza e a questa gioia. Se non lo è più, bisogna che lo ridiventi.<br /><br /><br />La terra, nostra sola patria<br /><br />Perché questa terra, fragile e straziata, nostro solo luogo, è la nostra sola patria. Bisogna, qui, protestare energicamente contro l’assurda pretesa dell’uomo di colonizzare la “galassia” e di insediare colonie sugli altri pianeti o piazzare delle stazioni orbitanti nell’universo. I romanzi avveniristici ci mostrano spesso queste colonie di esseri umani emergenti da un altro pianeta per fuggire da una terra divenuta inabitabile. E io dico no. No, perché si tratta di “colonizzare” lo spazio. Non avete ancora capito cosa vuol dire “colonizzare”? Non avete ancora capito, dopo la colonizzazione dei paesi africani del nord da parte dell’islam e quella del resto dell’Africa da parte dell’Europa? E la colonizzazione degli indiani ad opera del melting-pot americano! E la colonizzazione dell’America del Sud da parte degli spagnoli e degli inglesi? Non avete ancora capito che ogni colonizzazione causa un duplice disastro, quello del colonizzato e quello del colonizzatore? Non sono niente queste esperienze, quando non c’è stata una sola colonizzazione felice? E volete colonizzare lo spazio, ma cosa installerete in questo spazio? In realtà, e innanzitutto, un fenomenale macchinario bellico. Ecco il senso delle fabbriche nello spazio e dei satelliti delle comunicazioni. Tutto vi è votato alla guerra.<br />Ritornate, dunque, sulla terra e lavorate per rendere questa terra umana e vivibile. Perché questa è la nostra via d’uscita. La terra è il nostro solo luogo. Ritrovate la gioia della terra. Invece di odiarla a causa delle sue catastrofi e di distruggerla con lo sfruttamento dell’industria agricola, delle risorse minerarie degli idrocarburi, invece del delirante spreco di queste ricchezze lentamente accumulate per milioni di anni e che noi esauriremo in alcuni decenni. Contemplate la pienezza della campagna, la grandezza dei monti, la maestà dell’oceano e il mistero della foresta. Questo è fatto per voi, se sarete abitanti i quali ricevono tutto il necessario per essere felici, come lo stato l’uomo per millenni. Ma questa terra, dopo lo strappo, non è soltanto il giardino, bensì anche il luogo di drammi e catastrofi. Ecco l’opera che l’uomo deve realizzarvi: restituire la nostra sola patria a se stessa. Ponendovi l’uomo, Dio gli ha dato questo solo ordine: coltivare e custodire, questo è tutto ciò che dobbiamo fare. Coltivarla bene, in modo da non esaurirla, né renderla orrenda, né snaturarla; custodirla bene, al contempo contro se stessa, in modo da restituirle la sua perduta armonia, e contro noi stessi, in modo da trovare in essa il limite e la misura della nostra hybris! L’uomo misura di tutte le cose, certo. Ma anche la terra, nostro giardino, è la misura di ogni cosa, ossia delle azioni ragionevoli e consentite all’uomo. Avremmo dovuto vezzeggiarla, farne l’oggetto della nostra scelta e della nostra dilezione, per renderla più amena e più conforme allo spirito della sua creazione. Si trattava di armonia. Ma ecco, ancora una volta abbiamo preso una strada radicalmente sbagliata. Da mezzo millennio a questa parte, l’ingegno dell’uomo si è orientato verso la conquista, lo sfruttamento, la grandezza, mentre la sua vocazione era l’armonia. Abbiamo cominciato a distruggere per avere di più. Accumulare beni e distruggere tutto, perdendoli. Stiamo smembrando il giardino, e presto la nostra terra, se continueremo a divorarla così, non sarà altro che un mucchio di ossa senza vita. Le ultime tracce dell’Eden stanno sparendo. È un discorso ecologico? Temo piuttosto che sia un’elegia sulla morte della terra, e non era questa la nostra vocazione di uomini. Eravamo piuttosto chiamati, e lo intuiamo confusamente, a creare un’armonia, un equilibrio, una giusta ripartizione delle forze e dei mezzi, una equa divisione dell’abbondanza terrestre. Ma questa preoccupazione fu soffocata dalla potenza.Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-12085735911856162832007-10-26T11:36:00.000+02:002008-11-13T15:15:06.678+01:00VALTELLINA. VIVILA COME SEI<div align="justify"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUoa53cBNHPqb0la2FgIgl7NzHqrB86WRzpa0f_lnEUtMMi6aoUiqyNtDFYEA98Ce9KnEBCtX7CjW_gVfXKUMh4ap7QBToPFAqqcrJYVHUJHIh8j2-2WcPfk-HvB3KeP94lcP9SiJFKug/s1600-h/clip_image002.jpg"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5125577831129288802" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; CURSOR: hand" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUoa53cBNHPqb0la2FgIgl7NzHqrB86WRzpa0f_lnEUtMMi6aoUiqyNtDFYEA98Ce9KnEBCtX7CjW_gVfXKUMh4ap7QBToPFAqqcrJYVHUJHIh8j2-2WcPfk-HvB3KeP94lcP9SiJFKug/s320/clip_image002.jpg" border="0" /></a>Questo è il messaggio pubblicitario che si incontra risalendo la Valtellina, pubblicità che è apparsa anche su riviste e che dovrebbe rappresentare, secondo i dettami del marketing turistico, un richiamo per turisti che ancora ignorano l’esistenza di una Valle al centro delle Alpi.<br />“Valtellina. Vivila come sei.”<br />Ora, lasciando per ultimo le considerazioni sull’immagine, il tipico torero delle Alpi Retiche e il paesaggio alle sue spalle che appare piuttosto dolomitico che valtellinese, viene da chiedersi cosa voglia comunicare la frase “vivila come sei”. Ero convinto che per conoscere e apprezzare una cultura diversa servisse un orizzonte più aperto alla manifestazione dell’alterità, che lasciarsi meravigliare dalla differenza fosse un modo esemplare di conoscenza. Mi viene in mente un’antica parola greca, thaumazein, che non significa semplicemente sguardo, ma indica la capacità di meravigliarsi di fronte a ciò che non ci appartiene e al medesimo tempo lasciare che ciò che ci è estraneo si manifesti in tutta la sua differenza. Esattamente il contrario di quanto ci comunica la frase della pubblicità: Valtellina. vivitela come siete, che voi siate cittadini di una metropoli o di un villaggio di pescatori, portate con voi il vostro modo di abitare, qui vi troverete a casa. Appunto, nessuna novità, nessuna fatica di adattamento, nessuna meraviglia, nessuna alterità. Mi chiedo perché mai una persona dovrebbe prendersi la briga di viaggiare fino a questa splendida Valle per fare esattamente le cose che farebbe tranquillamente nel proprio salotto. Per la natura? O per l’aria pura? (sempre che di aria pura si possa parlare quando migliaia di veicoli attraversano la Valle formando code chilometriche), non so, ma sono certo che nessuno opterebbe per un viaggio verso un luogo che si atteggia a villaggio turistico. Già, perché il senso della pubblicità è proprio questo, presentare la Valtellina come un immenso villaggio vacanze, esattamente simile a qualsiasi altro villaggio presente in Egitto o a Bali, che importa poi se i locali si chiamino valtellinesi e producano vini da qualche secolo o siano spagnoli e toreri di professione? Questo forse è il drammatico destino di molte località a cui l’antropologo francese Marc Augé faceva riferimento quando parlava della lenta trasformazione di luoghi in non-luoghi, ad essi contrapposti in quanto non-identitari, non-relazionali e non-storici, ossia spazi effimeri per eccellenza in cui la differenza è spazzata via da una costellazione di immagini e rappresentazioni di realtà comune a tutti gli utenti e che in questa pubblicità sembra trovare la sua forma compiuta.<br />Valtellina. Vivila come sei, perché noi residenti in Valle abbiamo smarrito la capacità di abitare e perciò non possiamo certo comunicare a voi la nostra cultura, e forse nemmeno il nostro paesaggio: la scelta nella pubblicità di uno sfondo più somigliante ad una valle del Trentino Alto Adige ne è la drammatica prova. </div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-48505820680963980372007-10-15T19:54:00.000+02:002008-11-13T15:15:06.870+01:00<div align="center"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhtA-Vj8w_0q8XclZJZ-GtsfkaXpLS_NEbcr-_Gvas-h8t5OtgRee2Pv6VNmNiU-hlB-iu-pUPrQvOnM5NMkrTTy3DkHnlH4g3L_QfGDF4HfuwgQ_Ku4UcqqrstnOlkohAqbAOLbv9mfgI/s1600-h/TERRA+MATER.jpg"></a><span style="font-size:130%;color:#cccccc;">Quarto Seminario Internazionale</span><span style="font-size:130%;"><br /></span></div><div><span style="color:#cccccc;"><br /><br /></span></div><div align="center"><span style="font-size:130%;color:#cccccc;">TERRA MATER </span><span style="font-size:130%;"><br /></span></div><div><span style="color:#cccccc;"><br /><br /></span></div><div align="center"><span style="color:#cccccc;"><span style="font-size:130%;">CARTA DI GUBBIO 2007</span><br /></span></div><div><span style="color:#cccccc;"></span></div><div><span style="color:#cccccc;"><br /><br /></span></div><div align="justify"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKXFt6E0d3FEmXsnVwRVAtCcCj6_pActIFyQy_eZoCkopRbOIri6YGRbO6VioSR-SKcapCHzHxiM5934W9d_0OuhRfmOAO-u1A8g066fxEjKpyy0GrLJm_b6jPqtw7izWNHZPY4bxV9KM/s1600-h/TERRA+MATER.jpg"><span style="color:#cccccc;"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5121630146009166242" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; WIDTH: 137px; CURSOR: hand; HEIGHT: 168px" height="248" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKXFt6E0d3FEmXsnVwRVAtCcCj6_pActIFyQy_eZoCkopRbOIri6YGRbO6VioSR-SKcapCHzHxiM5934W9d_0OuhRfmOAO-u1A8g066fxEjKpyy0GrLJm_b6jPqtw7izWNHZPY4bxV9KM/s320/TERRA+MATER.jpg" width="183" border="0" /></span></a><br /><span style="color:#cccccc;">Nel venticinquesimo anniversario della formulazione della Carta di Gubbio 1982, i partecipanti al Quarto Seminario Internazionale Terra Mater (Gubbio 24-27 settembre 2007) ritengono necessario riproporre la concezione francescana della natura non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini, per la sua straordinaria forza, in un momento in cui la situazione del pianeta appare più preoccupante che mai.<br />Negli ultimi anni, si sono moltiplicati gli appelli allarmati di esponenti della comunità scientifica, diretti in particolare alle autorità politiche. I cambiamenti necessari tardano tuttavia a mettersi in moto: la molla della paura non basta a superare la cultura del profitto fine a se stesso, né a scalfire la spinta consumistica che essa continuamente induce.<br />La progressiva riduzione delle riserve di petrolio e di gas rende sempre più difficoltoso l’approvvigionamento di energia, con la conseguenza di conflitti anche sanguinosi.<br />Le accademie scientifiche denunciano il fenomeno del cambiamento climatico, legato al ricorso massiccio ai combustibili fossili: l’aumento accelerato di concentrazione di anidride carbonica in atmosfera stravolge la stabilità degli equilibri e dei fenomeni periodici che determinano il clima.<br /><br />Si deve dunque modificare in tempi rapidi la struttura del bilancio energetico, sapendo che non è oggi possibile, in sostituzione dei combustibili fossili, il ricorso all’energia nucleare, per i problemi tuttora irrisolti che questa presenta.<br />Al centro dell’emergenza, oltre ai problemi energetici e climatici, si collocano anche la perdita della biodiversità, la massiccia deforestazione, l’inquinamento, con gli effetti distruttivi sull’ambiente e il quadro doloroso delle malattie degenerative, il degrado dei centri urbani, il perdurante scandalo della povertà e della fame nel mondo, che costringe milioni di esseri umani all’emigrazione.<br />La ricorrenza dell’ottavo centenario dell’arrivo a Gubbio di S. Francesco - che qui assiste i lebbrosi nel momento culminante della sua conversione - suggerisce di cercare nella sua figura l’ispirazione per un cambiamento radicale di prospettiva.<br />L’insegnamento francescano, che si fonda sulla fratellanza con tutte le creature, viventi e non viventi, addita un modello di uomo nel quale, dopo otto secoli, credenti e non credenti possono ancora incontrarsi.<br />Lo stile di vita che ne consegue indica a tutti il “ben vivere” nel quadro di una cultura del limite, anziché lo sviluppo illimitato e il consumo senza misura.<br /><br />A tal fine, Terra Mater ritiene indispensabile<br /><br />che – avendo il progresso tecnologico accresciuto enormemente il potere di manipolazione della natura, divenuta perciò vulnerabile – s’imponga un’aggravata responsabilità umana in termini di difesa dei sistemi naturali e di ripristino dei loro equilibri, e si osservi un criterio di cautela che obbliga a non adottare innovazioni se non si abbia una ragionevole garanzia della loro sicurezza;<br /><br /><br />che alla presa di coscienza della sempre più grave crisi ambientale corrisponda una crescita della responsabilità individuale, sicché ciascuno non solo si astenga da comportamenti pregiudizievoli, ma eserciti una vigilanza critica e promuova una tutela attiva dell’ambiente, inteso come bene comune;<br />che si adottino, nel consumo di beni e risorse, pratiche di moderazione, non eccedenti la misura richiesta dai bisogni fondamentali: ciò implica la rinuncia a oggetti, ad abitudini e livelli di comfort non necessari, in una prospettiva di frugalità degli stili di vita;<br />che i governi, le istituzioni, i cittadini e le imprese perseguano, con determinazione e costanza, la sperimentazione e l’uso delle energie alternative, passando da fonti energetiche concentrate, come i combustibili fossili e l’energia nucleare, a fonti diffuse sul territorio e che queste – insieme con il risparmio energetico – siano al centro delle politiche pubbliche e delle abitudini private;<br />che il “consumo del mondo” cessi di costituire un elemento strutturale dell’essere umano nella civiltà industriale e tecnologica, e l’ambiente sia vissuto come il sistema delle realtà naturali e culturali di cui l’uomo fa parte originariamente e indissolubilmente;<br />che si individuino nuove sedi di decisione politica a livello planetario per superare i tradizionali rapporti diplomatici tra gli Stati e consentire ad una pluralità di soggetti e agenzie (organizzazioni non governative, associazioni imprenditoriali, ecc.) la partecipazione ai processi decisionali;<br />che si ridefiniscano profondamente le ragioni dei rapporti economici ineguali tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento alle politiche agricole e all’imposizione di monocolture, che impoveriscono la biodiversità e rendono i Paesi che le adottano maggiormente soggetti a crisi e conflitti;<br /><br />che la donna, come nella visione francescana, sia riconosciuta nella sua dignità e nella pienezza dei suoi doni e valorizzata come portatrice di un’etica della cura, la quale, in quanto alternativa alla cultura del dominio, assume la natura e l’ambiente tra i propri oggetti privilegiati;<br />che si riconosca la dimensione culturale del rapporto tra uomo e natura nella forma del paesaggio, espressione e patrimonio di una comunità che, nella propria interpretazione dell’abitare, non tradisca le dimensioni storiche, identitarie e simboliche del luogo;<br />che si privilegi l’esperienza diretta dei luoghi e degli ambienti, da contemplare, attraversare, conoscere, per goderne e fruirne esteticamente;<br />che si attui una educazione ambientale permanente (che coinvolga scuole, istituzioni, associazioni, imprese, mezzi di comunicazione) nell’ottica della complessità, intesa come visione sistemica della realtà, sia nel suo aspetto scientifico ed ecologico, sia in quello etico e comportamentale, privilegiando esperienze dirette sul territorio;<br />che si assuma nei confronti degli animali un atteggiamento ispirato alla più avanzata sensibilità, si risparmino loro il più possibile maltrattamenti e sofferenze (in particolare, si valorizzino le metodologie alternative alla sperimentazione animale) e ci si adoperi per la salvaguardia delle specie a rischio d’estinzione; analogo atteggiamento di rispetto venga adottato nei confronti del mondo vegetale e minerale: S. Francesco ci insegna che un’etica che si occupa solo degli umani rischia di essere disumana. Il suo umanesimo, per la sua apertura cosmica, può definirsi ecologico.<br />A un quarto di secolo dalla “profetica” Carta di Gubbio 1982, Terra Mater indirizza di nuovo ogni uomo sul cammino di S. Francesco, alla riscoperta dei valori fondamentali dell’abitare la Terra.<br /><br />TERRA MATER<br />Assisi Nature Council (A.N.C.)<br />Associazione Italiana per il World Wildlife Fund (W.W.F. Italia)<br />Associazione Nazionale Italia Nostra<br />Bureau Européen de l’Environnement (B.E.E.)<br />Centro Francescano Studi Ambientali<br />Club Alpino Italiano (C.A.I.)<br />Club di Roma<br />Comune di Gubbio<br />Comunità Montana “Alto Chiascio” Gubbio<br />Conferenza dei Ministri Generali delle Quattro Famiglie Francescane:<br />Ordine dei Frati Minori (OFM)<br />Ordine dei Frati Minori Cappuccini (OFMCap.)<br />Ordine dei Frati Minori Conventuali (OFMConv.)<br />Terzo Ordine Regolare di San Francesco (TOR)<br />Ente Nazionale Protezione Animali (E.N.P.A.)<br />Federazione Italiana Pronatura - Federnatura<br />International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (I.U.C.N.)<br />Istituto Italiano di Bioetica<br />Legambiente<br />Lega Italiana Diritti dell’Animale (L.I.D.A.)<br />Lega Italiana Protezione Uccelli (L.I.P.U.)<br />Mountain Wilderness Italia<br />Planning Environmental and Ecological Institute<br />Provincia di Perugia<br />Regione Umbria<br />Società Italiana di Ecologia (S.IT.E.)<br />Society for International Development (S.I.D.)<br />World Futures Studies Federation </span></div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-32044141298712002422007-08-29T17:41:00.001+02:002008-11-13T15:15:07.276+01:00<div><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhQdaxW0ZS84VdYbfYuVbyMT2q_9q5RabqNwm-1dOV4JD4fuFsggTQTC3Bkp4TdrsHWKgiByi2ecqqumZNJ5J6cpvnxwRaiS9KxKGasHauX0HQIJ7lIirIMxocYct8BNHEIuxz_5ZZl1L0/s1600-h/Libro+Bonesio+Fronte+e+risvolto.jpg"></a><br /><br /><div align="center"><strong><span style="font-size:130%;color:#cccccc;">COMUNE DI BORMIO, 1 SETTEMBRE 2007</span></strong></div><br /><br /><br /><br /><div align="center"><strong><span style="font-size:130%;color:#cccccc;">LUISA BONESIO (Università di Pavia) presenta il suo ultimo libro:</span></strong></div><br /><br /><br /><br /><div align="center"><span style="font-size:180%;"><span style="color:#cccccc;">"<strong>PAESAGGIO, IDENTITÀ E COMUNITÀ TRA LOCALE E GLOBALE"</strong></span></span></div><br /><br /><p align="center"><a href="http://4.bp.blogspot.com/_S5grIEqkz_U/RtWXFJN4t5I/AAAAAAAAABE/Gw1e-VqDnPw/s1600-h/clip_image002.jpg"></a><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5121545616757813618" style="DISPLAY: block; MARGIN: 0px auto 10px; CURSOR: hand; TEXT-ALIGN: center" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgmQmeKVlz4CnCX4XWFegkHBZdzC6A6vt_6pPCAEH0o7VqYKtwPDLaAAwtkhCGOSwTYpqELVo0SyLM38JGmn3aE3rVbRkL6hxIbeV0epL0jVuqblgQKVB_7gTMqpufzRm4p6AkGqrOXdqc/s320/Libro+Bonesio.jpg" border="0" /><br /></p><br /><br /><div align="center"><span style="color:#cccccc;"><span style="font-size:130%;"><strong>Autore : Prof.ssa Luisa Bonesio, Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Pavia<br /><br />Coordina: Ing. Enrico Cinalli, Assessore all’Urbanistica e Territorio, Energia e Ambiente del Comune di Bormio</strong></span><br /></span></div><br /><br /><div align="center"><strong><span style="font-size:130%;color:#cccccc;"></span></strong></div><br /><br /><p align="center"><span style="color:#cccccc;"><br /><br /></span></p><br /><br /><div align="center"><strong><span style="font-size:130%;color:#cccccc;">Bormio, 1 settembre 2007 - ore 21.00<br />Sala conferenze Bormio Terme<br />Via Stelvio, 10<br /><br />ingresso libero</span></strong></div><br /><br /><br /><br /><div align="center"><span style="font-size:130%;"></span></div></div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6883940825730739266.post-87984862371521913672007-08-11T12:02:00.000+02:002008-11-13T15:15:07.657+01:00<div align="center"><span style="font-family:arial;"><strong>Associazione culturale “Terraceleste”</strong></span><br /></div><br /><a href="http://2.bp.blogspot.com/_S5grIEqkz_U/Rr2JzTqRMVI/AAAAAAAAAAU/42vNvqlWS9A/s1600-h/logo+m.JPG"></a><br /><br /><div align="justify"><a href="http://2.bp.blogspot.com/_S5grIEqkz_U/Rr2JzTqRMVI/AAAAAAAAAAU/42vNvqlWS9A/s1600-h/logo+m.JPG"></a><br /><br /><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixDhCZQKQLCCTe90kkJow6BxbLU2WaIcqbvZagrMtpeVoKl_G2c2xQIVsijmfZ3jM4VylEk-xfJEops4vTyi4PkW8wolcZ-ptNNlMAlapaqLNC2WKFuV0CZzvY1MT6upz-h_3hpbXsflw/s1600-h/logo+m.JPG"><img id="BLOGGER_PHOTO_ID_5121542498611556690" style="FLOAT: left; MARGIN: 0px 10px 10px 0px; CURSOR: hand" alt="" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixDhCZQKQLCCTe90kkJow6BxbLU2WaIcqbvZagrMtpeVoKl_G2c2xQIVsijmfZ3jM4VylEk-xfJEops4vTyi4PkW8wolcZ-ptNNlMAlapaqLNC2WKFuV0CZzvY1MT6upz-h_3hpbXsflw/s320/logo+m.JPG" border="0" /></a>L’Associazione non ha fini di lucro ed è apolitica. Suoi fini sono la promozione dei valori identitari, culturali, ambientali e paesaggistici del territorio sia come fattore di crescita delle comunità che come motivo di lungimirante valorizzazione turistica; la realizzazione di iniziative ed eventi volti all’educazione permanente dei cittadini, al dialogo interculturale, alla conoscenza e diffusione delle manifestazioni storiche e territoriale della memoria storica dei luoghi, fattori indispensabili di crescita civile, economica e culturale anche nel più ampio orizzonte dell’Europa e di fronte alle sollecitazioni provenienti da un mondo complesso, ma anche in quanto valori aggiunti di ogni marketing territoriale di fronte a sfide globali; la collaborazione con enti pubblici e privati, con istituzioni scientifiche, università, scuole in tema di educazione ai valori del paesaggio, dell’incremento della coscienza territoriale, della responsabilità verso il patrimonio culturale, fisico e immateriale e delle forme della sua valorizzazione.<br /><br />Le finalità sociali sono:<br /><br />− la promozione dei valori identitari, culturali, ambientali e paesaggistici del territorio sia come fattore di crescita delle comunità che come motivo di lungimirante valorizzazione turistica;<br />− la realizzazione di iniziative ed eventi volti all’educazione permanente dei cittadini, al dialogo interculturale, alla conoscenza e diffusione delle manifestazioni storiche e territoriale della memoria storica dei luoghi, fattori indispensabili di crescita civile, economica e culturale anche nel più ampio orizzonte dell’Europa e di fronte alle sollecitazioni provenienti da un mondo complesso, ma anche in quanto valori aggiunti di ogni marketing territoriale di fronte a sfide globali;<br />− la collaborazione con enti pubblici e privati, sia italiani che stranieri, con istituzioni scientifiche, università, scuole in tema di educazione ai valori del paesaggio, dell’incremento della coscienza territoriale, della responsabilità verso il patrimonio culturale, fisico e immateriale e delle forme della sua valorizzazione anche come realizzazione di culture conviviali e ospitali;<br />− l’elaborazione di indagini conoscitive, ricerche, progetti scientifici, azioni di divulgazione, di formazione ed educazione;<br />− l’ideazione e l’organizzazione di convegni, dibattiti, conferenze, mostre, eventi mediatici;<br />− la realizzazione di forme e strategie di comunicazione dei temi e dei valori contemplati nei fini dell’Associazione;<br />− la realizzazione di studi, ricerche, pubblicazioni (articoli, saggi, volumi, report di ricerca, collane editoriali, ipertesti e testi sul web) sui temi di lavoro dell’Associazione;<br />− l’offerta di forme di consulenza nell’ideazione, organizzazione e realizzazione di eventi culturali e iniziative a carattere formativo, di divulgazione o di aggiornamento.<br /><br /><br />Presidente Luisa Bonesio<br />Segretaria Laura Menatti<br />Tesoriere Davide Cinalli<br /><br /><br />Info e iscrizioni: <a href="mailto:cinod@tiscali.it">cinod@tiscali.it</a> <a href="http://www.geofilosofia.it/">http://www.geofilosofia.it/</a> </div>Terracelestehttp://www.blogger.com/profile/00308543064494103279noreply@blogger.com2