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martedì 18 marzo 2008
lunedì 17 marzo 2008
Celerina al voto sul grattacielo della discordia
Intervista sul Corriere del Ticino (CH) alla Prof. Luisa Bonesio sul progetto di Mario Botta per Celerina:
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Pubblicato da Terraceleste alle 11:33 0 commenti
sabato 8 marzo 2008
Saluti dall’Italia
Documento di indirizzo per la redazione di linee guida sui nuovi compiti di tutela del paesaggio da parte del Ministero dell’Ambiente
Paesaggio e identità nazionale
Sono pagine bellissime quelle in cui un grande poeta europeo, Wolfang Goethe, racconta il suo viaggio in Italia, un viaggio a piedi e lento da Milano a Palermo. In Italia, ci dice il grande poeta romantico, c’è come una magia, una sorta di miracolo che esorbita dalle meravigliose città e dalle opere d’arte: c’è l’unicità di un paesaggio reso possibile da un mirabile intreccio fra una natura straordinaria – dolce nelle valli, ricca di vegetazione, mite nel clima - e una cultura e una storia che hanno saputo porsi come “seconda natura”, ovvero come un sistema di gesti umani che non aggredisce ma imita e valorizza la “prima” natura. Le specie naturali, gli ambienti geografici e le genti vive hanno trovato una contaminazione e una fusione, in un mosaico da cui scaturiscono le ville della lucchesia, gli elaborati giardini, i campi e gli orti popolati di case e di uliveti ma anche gli sfondi dei magnifici quadri di Leonardo, di Tiziano, di Giorgione: vicende pittoriche in cui l’umano in primo piano sembra nascere dagli alberi, dalle rocce, dalla tempesta all’orizzonte.Grazie a questo miracolo l’Italia per tutto l’Ottocento è stata meta ambita del “Gran Tour”, luogo privilegiato di una esperienza di formazione che coinvolgeva l’aristocrazia intellettuale europea: poeti, scrittori e, soprattutto, la “meglio gioventù”. Bellezza, memoria e questa straordinaria armonia, questa biodiversità ricchissima di natura e cultura, che si scopriva magnifica anche quando più tardi, i chierici e i colti viandanti spostarono gli itinerari sempre più verso sud: un “sud del desiderio”, come scrisse Friedrich Nietzsche, dove le asprezze, le rigidità e qualche conformismo della mitteleuropa si spezzavamo di fronte al chiarore del sole, all’azzurro del mare, ritrovando gioia, sensualità, nuova vitalità. Un Sud sulle cui sponde arrivavano le spezie, gli odori, i colori dell’Africa, dove la musica era malinconia araba, dove il fuoco e le nevi dell’Etna rammentavano la Grecia, dove ogni antro, ogni fiume, ogni foresta nascondevano una ninfa o una sirena, rappresentando una inedita ospitalità, una capacità di meticciato, il duplice valore di chi, consapevole di una identità, sa colloquiare con la differenza.
Fu certo per questo che Concetto Marchesi, il grande latinista e studioso del mondo classico, uno dei Padri nobili del movimento comunista italiano, si battè nell’Assemblea Costituente per inserire, fra i beni tutelati dalla Repubblica, il paesaggio. In un memorabile dibattito che durò più di sei mesi e che lo vide scontrarsi con l’On. Clerici che ironizzava sull’eccessiva importanza data al tema, Marchesi motivava l’impegno di tutela da parte della neonata Repubblica (e quindi l’inserimento nella Costituzione di quello che fu poi l’art 9), sottolineando come non si trattasse solo di una richiesta di anime belle rivolta a scopi estetici (nella legge del ’39 il paesaggio rientrava ancora nella categoria delle “bellezze naturali) ma di una battaglia per l’identità, per la difesa dei più alti valori civili. In quel paesaggio poteva infatti trovare fondamento etico una nuova idea di comunità, l’idea di una patria concorde e coesa non dal fascismo militare ma dal patrimonio artistico e memoriale lasciato dai Padri.
Dopo quasi cinquant’anni, consapevole dei rischi di anomia, di omologazione, di americanizzazione messi in atto da quel grande sradicamento che è insito nei processi di globalizzazione, anche l’Unione Europea ritorna su questa idea del paesaggio come fondamento dell’identità comunitaria dei Paesi membri. In un documento di svolta - La Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa (2000), ratificata dall’Italia nel 2004 - e partendo da una definizione assolutamente innovativa del paesaggio inteso come “una parte di territorio, così come è percepita dalla popolazione, i cui caratteri sono il risultato delle azioni naturali e umane e delle loro relazioni” (un’ idea sistemica che, mettendo al centro i due concetti di “percezione sociale del paesaggio” e di “ambiente di vita”, riesce a legare i paesaggi naturali e i paesaggi culturali, correlandoli alla comunità sociale), rimarca la necessità di porre il paesaggio come uno dei “beni originali” del Vecchio Continente da riconoscere giuridicamente : un “bene comune” da tutelare come ”componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art.5).
Il paesaggio naturale e la bellezza
La parola “paesaggio”, ci ricorda Luisa Bonesio, è una parola che, nelle lingue europee, è connotata da una singolare ambivalenza. Essa designa infatti sia il territorio, sia la sua rappresentazione caricata di valori estetici. Questo fa sì che il paesaggio, in tutta la tradizione moderna, sia stato inteso non come un “ambiente”, ossia “un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua e pietre” , ma come una “forma culturale”, anzi una “forma simbolica”, per dirla con George Simmel (Filosofia del paesaggio, 1912), ovvero uno spazio che è esterno, sì, ma che, nello stesso tempo, appartiene all’interno, al desiderio inconscio, al sentimento onirico, all’Anima stessa di un individuo o di una civiltà. Ciò che lo costituisce di fatto è perciò lo sguardo, la percezione visiva e soggettiva di un valore (in genere la bellezza). Non a caso è la finestra il punto di vista privilegiato nella rappresentazione pittorica: la finestra che delimita ciò che, al tempo stesso, è natura e visione.
Provenendo essenzialmente da una matrice filosofica, anche la tradizione italiana di tutela del paesaggio ha riposto le sue idee di salvaguardia sulla contemplazione e su un apprezzamento di bellezza. In questo senso fu pensata la prima legge di tutela del paesaggio (la 778 del 11 giugno 1922), presentata nel 1920 dal filosofo Benedetto Croce, allora Ministro dell’Istruzione nell’ultimo Governo Giolitti. Croce, richiamando la necessità di difendere e mettere in valore le bellezze naturali ed artistiche d’Italia sia per ragioni morali che di “pubblica economia”, assumeva il paesaggio come “veduta”, facendone la rappresentazione materiale e visibile della patria, del “volto amato della patria”. E anche la legge Bottai, ispirata ai principi crociati, identificava il paesaggio da proteggere “con le bellezze naturali considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di tali bellezze” (Legge 29 giugno 1939, n.1497, art.1).
Del resto, il modello vedutistico del paesaggio come “belvedere” e “panorama”, funziona particolarmente in Italia proprio per la qualità della sua “prima” Natura. Essa si mostra infatti con i caratteri appunto del bello e non del sublime: ovvero, come ci insegna Kant, dell’armonico, dell’apollineo, del misurato. E’ una Natura che si può abbracciare con lo sguardo, serena e accogliente, varia sì ma anche rassicurante e ben governata dall’uomo. Una Natura che è insieme femmina attraente e madre generosa, come nel quadro di Leonardo che abbiamo scelto in epigrafe: fruttifera e rotonda, come le uova; morbida anche fra gli alberi, nel verde, che si presenta non sotto le sembianze della foresta misteriosa e illegale o del bosco selvatico e oscuro, ma del “giardino italiano”. Essa parla di una biodiversità assoluta che però, dalla montagna alpina, densa di pascoli e frutteti, agli Appennini fitti di boschi misti di rovere, lecci e castagni, alla boscaglia maremmana, mantiene un andamento dolce e familiare anche quando si rivolge al Sud, formando un paesaggio di alberi educato e profumato: mandorli, fichi, noci, ulivi grandi come sculture umanizzate e avvolte nell’odore caldo e sensuale dei limoni e delle zagare.
Questo paesaggio naturale è oggi tutelato per circa il 20% da una rete ecologica di aree protette, riserve, zone di protezione speciale e siti di interesse comunitario. All’apprezzamento classico per la bellezza, si è aggiunta in questi anni , negli impegni di tutela, anche una tradizione che ha alla base il pensiero ecologico e che intende la bellezza – come ci spiega Giuseppe Prestipino – come “la singolarità che sconfina nella totalità per trovare equilibrio, amicizia, comunanza ontologica di tutti gli esseri viventi”; la bellezza dunque come appartenenza comune alla “grande catena dell’essere”, una costellazione dove l’uomo (animale umano) intreccia la sua vita con altre vite, “con la bella famiglia” di vite delle piante, delle stelle, degli altri animali. Tale tradizione ha trovato la sua migliore affermazione nella Legge 394 del 1991 sulle “aree naturali protette” intese come valori intrinseci, “valori in sé” avulsi dal criterio dell’utile (o dell’economico, del vantaggioso, del salubre) da consegnare come tali alle future generazioni.
La legge 394 ha portato alla costituzione in sistema dei primi parchi nazionali e ha indicato modi nuovi e forme avanzate di gestione (le “comunità del parco”) per la conservazione dei grandi paesaggi naturali: veri e propri Paradisi, scenari incontaminati di bellezza in cui può ancora sopravvivere una parte di Natura sottratta alla manipolazione umana e destinata alla contemplazione (una contemplazione viva, fatta di passeggiate e godimento e osservazione e studio e gioco). Ad essa si sono poi aggiunte la Direttiva Habitat del ’92 – che assume gli impegni di Rio di protezione della biodiversità - e il D.P.R. di recepimento n.357 del 1997 che, proteggendo i corridoi ecologici, le piste per le migrazioni, le enclaves delle specie, ha contribuito in qualche modo a difendere anche il paesaggio naturale. Come anche fa l’ultimo Decreto Ministeriale (frutto della passione ecologica di questo Governo) sui “Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione e Zone di protezione speciale”, del 17 ottobre 2007), un decreto fortemente avversato dalle lobbies dei cacciatori, dei proprietari di cave e dei nuovi affaristi dell’eolico.
Nonostante ciò non si è attenuato il rischio di degrado per l’intero paesaggio italiano. Il quale lo stesso sta perdendo molte delle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nei secoli. Innanzitutto si è drammaticamente semplificato, smarrendo moltissima di quella biodiversità che lo distingueva da quello degli altri paesi europei e del mondo. Secondo alcuni dati forniti da Mauro Agnoletti, coordinatore della Commissione sul paesaggio istituita presso il Ministero delle politiche agricole e forestali, in certe zone collinari della Toscana, dove fino a tutto l’800, in un’area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi erborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 tessere di un ricchissimo mosaico paesaggistico, ora ce ne sono solo 18”. Ciò è accaduto perché fuori dai parchi e dalle zone protette è avvenuto uno scempio e il sistema della tutela basato sulla bellezza e sulla conservazione della natura ha rivelato le sue maggiori inadempienze.
Esso infatti non si è occupato del cosiddetto “paesaggio minore”, il paesaggio che non corrisponde al canone di eccellenza estetica o monumentale, né presenta un particolare pregio naturale, ma comunque ha a che fare con la sicurezza idrogeologica, con la riproduzione delle risorse naturali, con il contesto alle città, con la rispondenza al genius loci. Percepito come mero ambiente, questo tipo di paesaggio è ogni giorno aggredito dai rifiuti, dal cemento, dall’industria criminale degli incendi, dai parchi eolici, vere e proprie centrali industriali che, grazie al meccanismo perverso dei certificati verdi, proliferano di pale anche senza vento. Tanto da far pensare, come sostiene Alberto Magnaghi, che ci sia in Italia “una sorta di doppio regime: da una parte piccole porzioni di territorio dove si conservano come reperti museali la Natura (parchi, aree protette, biotopi) e la Storia (monumenti, centri storici, reperti archeologici); dall’altra grandi porzioni di territorio dove le regole prevedono la distruzione sistematica della Natura e della Storia”.
Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio può superare questo gap. Esso, fra le tante cose , prevede un nuovo protagonismo del Ministero dell’Ambiente, che, chiamato a copianificare con le Regioni e il Ministero dei Beni Culturali sul paesaggio, può pretendere di tutelare e di recuperare, contestualmente ai paesaggi eccellenti, anche paesaggi naturali degradati, paesaggi posturbani, paesaggi ex rurali , paesaggi su cui si è abbattuto in questi anni tutto il peggio del modello di produzione e di consumo. In questo senso stiamo lavorando ad una serie di iniziative di tutela del paesaggio “minore” (progetti di ripristino di lame e tratturi, recupero di inghiottitoi, neviere, cisterne, estensione del parco delle gravine, requisizione delle aree militari dismesse) . Fra queste particolarmente cara è quella legata al progetto “Mediterraneo ideale” che prevede il recupero di cinque fari (ad Otranto, Genova, Tunisi, Gibilterra, Alessandria d’Egitto) da destinare a Musei dell’amicizia e dell’ethos mediterraneo. E’ un progetto internazionale che però guarda all’Italia, per fornire un modello alternativo alla destinazione d’uso prevista dall’Agenzia del demanio per 200 fari italiani che, pur senza concessioni di proprietà ai privati, diventerebbero alberghi o centri di ristorazione.
3. Il paesaggio agrario .
Nel “paesaggio minore” possiamo classificare anche il paesaggio agrario, che ricopriva fino a poco tempo fa gran parte del territorio italiano. Esso è infatti ugualmente negletto. La perdita della biodiversità e della magnifica complessità del giardino italiano è dovuta al fatto che il paesaggio rurale si è drammaticamente semplificato: un fenomeno causato dal massiccio procedere dell’agricoltura industriale che, imponendo coltivazioni specializzate (monoculture: grano, mais, ed ora soia, colza e girasole per fare il biodiesel) , ha scarnificato il mosaico, riducendo le culture promiscue, e quella varietà di colori, di profili, di vegetazioni che avevano reso suggestivo tutto il palinsesto.
L’importanza del paesaggio agrario era stata sottolineata già nella visione di Concetto Marchesi, e dei costituenti che seguirono il dibattito sull’art. 9 (Emilio Lussu, Tristano Codignola, Palmiro Togliatti soprattutto). Una visione in cui c’era, oltre la difesa, pur fondamentale, dei valori artistici e culturali come fattori civili e identitari, il tentativo di recupero della storia delle “genti vive”, un riconoscimento di valore e di riscatto fatto al popolo, soprattutto al popolo contadino, al suo ingegno, alle sue conoscenze, alla sua fatica. Alle spalle la lezione di Emilio Sereni ma anche i libri di Pavese e Vittorini: storie di uomini che conversavano con i luoghi, con un paesaggio da cui emergeva non solo il genio eccellente, ma il genio diffuso, l’intelligenza nazional – popolare, la capacità inventiva del lavoro.
Non c’è dubbio – scrive Piero Bevilacqua che , fra l’altro, ci sollecita a dare vita ad un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano, una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Belpaese – che l’unicità del miracolo italiano sia in gran parte legata alla complessità del paesaggio rurale italiano. “Alla varietà incomparabile degli habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno - dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante varietà di climi, di morfologie, di suoli – si è aggiunta “la molteplicità e stratificazione delle impronte che tante e diverse civiltà hanno lasciato su questa ricchezza biologica”. Ad un “patrimonio incomparabile di piante, di colori, di tipi di vegetazione, si sono sovrapposte, esaltandolo, una varietà di culture, la complessità storica: Greci, Etruschi, Romani, Arabi che vi hanno impresso una impronta ecologica incomparabile fornendo un contributo così ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e recinzioni della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti sparsi, incastonati negli habitat più diversi. Manufatti che hanno un valore artistico speciale, una genialità edificatoria incomparabile: briglie romane, acquedotti, ponti, canali, cisterne, fontane, pozzi; e la stessa architettura rurale, poi lame, canali, gravine, mulini, frantoi, stalle, muretti a secco, terrazzamenti. E le malghe in legno e pietra, ricovero per uomini e animali. E poi le ville e le cascine, piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate a volte di mura di cinta, e le masserie” dove ancora sopravvivono i terrazzamenti e i muretti secco; non solo veri e propri musei dell’agricoltura a cielo aperto , che testimoniano un’età straordinaria del lavoro contadino, ma anche monumenti di una civiltà della natura, se è consentito l’ossimoro, una civiltà capace di usare l’artificio non in opposizione ma in sintonia e in equilibrio con i cicli naturali, gli elementi naturali, i tempi naturali.
Questa civiltà (penso alla civiltà contadina ma anche alla civiltà rupestre) giace ormai allo stremo. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale, dopo decenni di PAC che ha reso esasperata la pressione produttiva del suolo, dopo sempre più intensi dissodamenti di boschi e pascoli, di inquinamenti di pesticidi e concimi, di iperconsumo di acqua, essa appare mutilata non solo nei suoi paesaggi, ma nei suoi uomini e nella sua cultura. I contadini – considerati “residuati della Storia”, figure arcaiche destinate a scomparire con il progredire dello sviluppo e della modernità - non esistono quasi più, trasformati in “imprenditori agricoli”, direttamente collegati al mercato mondiale e votati alla fatalità di una crescita monoculturale e quantitativa. Così come non esistono più i loro valori, il loro mondo di relazioni. Come ci insegna Luigi Lombardi Satriani, la perdità della biodiversità della flora e della fauna qui come non mai anticipa e precede una perdità sociale e antropologica, e sostiene il venir meno del sentimento di comunità. Una nuova questione meridionale avanza, quella che vede in primo luogo l’anomia, la disgregazione sociale e poi la colonizzazione culturale, la perdita di una lingua propria, di propri miti, della propria diversità. Mentre le bambine si chiamano tutte Deborah, Roxana e Samantha, le nonne muoiono o smettono di raccontar le fiabe, grandi narrazioni del genius loci.
Di fronte a questa catastrofe il governo democratico non può trovare scorciatoie. Certo è bene praticare una serie di strade che limitino nell’immediato la sparizione del paesaggio agrario. Per esempio la istituzione sul territorio nazionale di Ecomusei con l’intento di conservare e valorizzare la complessità delle testimonianze materiali e immateriali del mondo contadino e capaci di riattivare la complessa rete di relazioni che caratterizzano una data comunità, per la valorizzazione delle tradizioni e dei saperi locali, per promuovere uno sviluppo autocentrato e locale (importanti sono, in questo senso, le due leggi approvate dalla Regione Piemonte (legge 31 del 1995) e dalla Regione Friuli (legge 148 del 2006). O anche la realizzazione di parchi agricoli multifunzionali che consentono di attivare finanziamenti con fonti multisettoriali e aiuti tecnici per le diverse funzioni di produzione di beni e servizi pubblici da parte degli agricoltori. Importante è anche la piena applicazione della Convenzione di Kiev sugli incentivi alle aree agricole ad alto valore naturalistico. E infine è importante la diffusione di una politica di prodotto che sostenga un mercato di qualità, biologico, capace di collegare il prodotto al contesto (gli inglesi che bevono il Chianti, bevono anche l’immagine di quelle terre).
Ma è soprattutto ad un rilancio complessivo dell’agricoltura che si deve mirare, intendendola come relazione complessa fra natura e società che riguarda sia la sfera della produttività economica che quella della ricchezza ecologica ed antropologica. Come ripete la Federazione dei Paysans Travailleurs, che ha avviato in Francia la riflessione sulla possibilità di realizzare nelle società moderne una agricoltura attenta al pianeta e agli esseri umani, l’attività agricola esprime un sistema di tecniche e di relazioni che per lungo tempo hanno convissuto con la natura in maniera più saggia dell’umanità contemporanea. Sono tecniche non desuete e non destinate alla museificazione – come sa Pietro Laureano, architetto degli archetipi che sta attualmente lavorando ad un Atlante delle conoscenze tradizionali commissionato dall’UNESCO – , tecniche tradizionali legate alle conoscenze più antiche delle comunità, ai materiali del posto, a sistemi di costruzione, di risparmio idrico, energetico, di suolo che possono far invidia a tecnologie sofisticate e che quindi hanno una carica assolutamente futuribile. Ne abbiamo avuto prova patrocinando il recupero di una cisterna a tetto (ripristinata a Matera nel 2006 grazie al lavoro volontario di una ventina di operai) che ricrea un sistema di raccolta e conservazione delle acque superficiali una volta assai diffuso nelle masserie della Murgia e ancora oggi assai esemplare: un intervento che si colloca in un progetto europeo di più ampio respiro scientifico – il progetto Shaduf, realizzato da Ipogea – che ha l’obiettivo di studiare e riattualizzare tutti i sistemi di raccolta d’acqua in tutta l’area mediterranea, attraverso l’utilizzo dei saperi tradizionali .
Il rilancio dell’agricoltura – di una agricoltura ecologica – prevede anche il rilancio di un’etica. La terra, come l’acqua e come l’energia, appartiene infatti a quei “beni comuni” che sono patrimonio dell’intera umanità, anzi dell’intera vita. Per questo abbiamo istituito presso questo Sottosegretariato, un gruppo di lavoro capace di elaborare una nuova legge di tutela degli usi civici, che si impegnasse a mantenere questa forma originale di possesso della terra affidandola alla comunità custode. E’ questa una prassi nata in epoca medioevale che prevedeva per la popolazione la possibilità consuetudinaria di trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque e che ha trovato configurazione giuridica in una Legge del 16 giugno 1927 (legge n. 1766) che censiva e stabiliva in qualche modo i diritti di “proprietà collettiva” al fine di consentire una coerenza con il regime di proprietà privata. Oggi questa legge va decisamente aggiornata sia alla luce del nuovo dibattito sul possedere – il “bene comune” - , sia nei criteri di gestione e nell’allargamento delle forme di partecipazione, sia nella tutela ambientale (si tratta per lo più di zone montane, veri e propri patrimoni di biodiversità), sia nelle modalità di contrasto dei processi in atto di alienazione e di speculazione.
Il paesaggio vuoto.
Il grande antropologo Ernesto De Martino ne La fine del mondo racconta di quando, durante un viaggio in Calabria nei pressi di Morcellinaria, chiese ad un giovane contadino di indicargli la strada provinciale che aveva smarrito. Il giovane gentilmente lo accompagnò per un tratto in macchina fuori dal paese ma, man mano che la macchina si allontanava e che aumentava la distanza dalle ultime case, cominciò a girare frequentemente la testa all’indietro e ad avere veri e propri attacchi di panico. Interrogato da De Martino rispondeva di essere rimasto smarrito dal non vedere più il campanile di Morcellinaria. Una vera e propria “crisi della presenza”, l’angoscia terribile (angoscia territoriale, la chiama De Martino) di chi, avendo perso i propri punti di riferimento, rischia la “fine del mondo”, l’apocalisse culturale, il non-essere-più dell’identità .
L’episodio rimanda ancora al paesaggio visto però questa volta in un aspetto desueto, come sostegno psicologico. Esso assume il valore che Marc Augè attribuisce al “luogo”, uno spazio che non è mai un contenitore, un mero esterno fisico, e nemmeno è più una rappresentazione mentale, ma una componente del benessere psichico e affettivo, la garanzia di una “ecologia dell’Io”. L’uomo se lo porta addosso come una specie di placenta invisibile anche quando è nomade, anche quando parte o fugge via: il beduino del deserto, per esempio, che ad ogni nuovo arrivo monta la tenda e la ricopre di tappeti istoriati della casa di provenienza (da qui, fra l’altro, nasce la credenza del “tappeto volante”). E così anche la nonna immigrata nella metropoli del Nord che si affretta ad allestire al suo arrivo un reliquiario di ninnoli, fotografie e icone, simboli del Paese da cui è stata sradicata.
Il luogo dunque come uno spazio in cui si conversa con il territorio trovando lì dei legami, il senso di una appartenenza, il valore della radice. Ma anche luogo come spazio relazionale dove si riscopre un senso e una cittadinanza. Luogo come può essere, per esempio, il paese natio, scrigno magico in cui vengono conservati i dolci legami dell’infanzia gli odori della cucina della nonna, le braccia della madre e la sua lingua. Luogo come “il posto delle fragole”, il quartiere che ospitò i giochi, la panchina dei baci e dei primi amori. Luogo come l’alberghetto dove un nuovo meticciato racconta storie sfuggite al naufragio. Luogo come il sito della divinità, delle potenze protettrici, dei buoni morti; luogo come il posto “santo” da lasciare incontaminato perché, come nel bellissimo film di Herzog, possano ancora andare a riposare gli antichi dei, le “Formiche Verdi”.
Tale luogo per adempiere al suo compito non deve essere necessariamente bello, né particolarmente carico di arte o di storia. Meglio se ha il mare o la foresta come sfondo, ma anche se è solo una pietra o una fontana o un dirupo, lo stesso, in qualche modo, deve essere tutelato perché eliminarlo o modificarlo bruscamente significherebbe offendere l’Io, interrompere una conversazione ingenerando l’angoscia che può portare ad una frustrazione se non proprio, al limite, ad una catastrofe. Anche il cambiamento perciò deve contenere elementi di riconoscimento, nel quale l’individuo, come dice Patrizia Resta, si percepisca sempre come parte in gioco. Ogni trasformazione cioè deve essere leggibile e saper mantenere – al di là dell’invenzione sulle forme, i materiali, le dimensioni – alcune costanti antropologiche che rinviano ai bisogni fondamentali dell’abitare: il rapporto con la Natura, il simbolismo del centro, la qualità comune dello spazio ludico, religioso, comunicativo, la presenza del vuoto. Rivendichiamo l’importanza del vuoto. Continuiamo a riempirlo in una sorta di horror vacui che ritiene che ciò che non è costruito è un non-senso e che spinge ad una volontà di urbanizzazione che deve essere infinita. Dietro c’è sicuramente l’affare ma anche il pregiudizio antropocentrico.
L’Homo riempitore e fabbro va fermato, va curata questa sua pulsione - una vera e propria “pulsione di morte” - che giudica “depresse” o inutili tutte quelle aree che non partecipano all’economicismo e alla funzionalità dello sviluppo. E’ una pulsione che non solo stravolge il simbolismo dei luoghi ma che consente anche la proliferazione di metastasi, di non-luoghi, di spazi senza identità, spazi senza comunità, che si possono solo attraversare. Essi dominano ormai le strade di Italia, dipanandosi in un reticolo di centri commerciali (480 solo nel 2006), capannoni industriali (7550 sempre nel 2006) , pale eoliche (2575 sempre nel 2006). Per non parlare poi dei tracciati dell’alta velocità, di linee elettriche, svincoli, aree di rifornimento, parcheggi, terreni vaghi simili a discariche: scenari all’americana, figli di una “monocultura paesaggistica” quasi sempre violentemente estranea alla configurazione dei territori attraversati, priva delle memorie artistiche, delle culture, degli ecosistemi e carica invece delle immagini seriali costantemente veicolate dalla televisione e dai films (immagini che per questo finiscono di imporsi quasi come una consuetudine, (come accade già, avverte Mario Salomone, “nell’informe metastasi della pianura lombardo-veneta: un disordinato susseguirsi di capannoni, autostrade, centri commerciali, villette di un incipiente urban sprawl).
Scenari monotoni e ripetitivi di costruzioni che non solo affollano le città come non mai (mille sono stati i casi di aggressione edificatoria contro cui siamo intervenuti: da Savona, dove un architetto “surmoderno” vuole costruire un megagrattacielo sullo scoglio votivo della Madonnetta, a Otranto, dove la marina militare vuole seppellire sotto un pugno di villette il Faro di Punta Palascia); ma che riempiono quel che rimane degli spazi aperti, degli spazi verdi, di quelli che appunto ancora rimanevano “vuoti”. Negli ultimi quindici anni, secondo dati ISTAT riportati in una denuncia del Comitato italiano per la bellezza, sono stati divorati dal cemento oltre 3 milioni 663 mila ettari di verde - duecentoquarantamila ettari ogni anno - una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo, con un consumo del territorio senza uguali in Europa. La minaccia prima viene dalle abitazioni private (331.000, nel 2005), tutte costose e in zone pregiate, seconde e terze case che non hanno diminuito affatto l’emergenza abitativa e che, nel segno di quella speculazione che ora si chiama “valorizzazione immobiliare”, hanno offeso non più solo il paesaggio costiero ma anche quello interno (valli, colline, vigneti: come a Pienza, come a Monticchiello).
Qui non fa testo la “questione meridionale”: è la Liguria (già stravolta da porti e porticcioli), la Regione che più ha consumato in edilizia e continua un assalto al territorio che, per la prima volta, è del tutto legale. Perché, se è vero che questa fase di intensa edificazione è stata aperta e consentita da una stagione di abusi e condoni, da una deregulation che ha stravolto e azzerato ogni legge di tutela ambientale, urbanistica, demaniale, da una “cartolarizzazione” eretta a sistema (i frutti nefasti del Governo precedente), è anche vero che qualcosa non funziona nella normativa ordinaria. A cominciare dai Comuni che, forti di una Delega alla tutela al paesaggio accordata loro in alcune Regioni – che, a loro volta, avevano visto attribuirsi la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali, nonché la tutela dell’ambiente dal DPR 616 del 1977 – si sono spinti a cercare nuovi introiti di urbanizzazione dilatando i permessi di lottizzazione e creando così una vera e propria emergenza nazionale
Nel denunciare questo sacco senza precedenti, il Ministro Rutelli ha preparato una rivisitazione del Codice dei Beni Culturali (DLgs 42/2004), proprio nella parte che riguarda sia il patrimonio culturale che i beni paesaggistici (le ultime modifiche sono state approvate qualche settimana fa). Forte anche di una sentenza della Corte Costituzionale (la 367, del 7 novembre 2006), che ribadisce che “il paesaggio, considerato un valore primario e assoluto, rientra nella competenza prevalente dello Stato”, la nuova stesura rivendica una maggiore presenza dello Stato nella gestione del paesaggio sottoposto a tutela esercitandola in due maniere: quella (cara a Salvatore Settis) della tradizionale procedura vincolistica che affida un potere vincolante ai pareri dei Sovrintendenti su pianificazione, autorizzazioni e controlli; e quella invece più nuova e forse efficace (cara a Edoardo Salzano) che sollecita le Regioni ad attivare intese di copianificazione con le Amministrazioni dello Stato (il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero dell’Ambiente), al fine di redigere Piani paesaggistici in cui vengano precisati con ampiezza i contenuti e gli strumenti della tutela e in cui vengano coinvolte non solo le istituzioni ma le popolazioni.
Il fine dei Piani Paesaggistici – rispetto ai quali stiamo elaborando delle Linee Guida generali - è quello di una “tutela dinamica” che parta appunto da quella coscienza di luogo messa in campo dalla Convenzione europea: un percorso che implica responsabilità individuale, gusto estetico, processi partecipativi, sentimenti identitari, valori di comunità ed una educazione ambientale che avvenga sia nella scuola che “all’aria aperta” (al proposito si rimanda al testo “Alfabeti ecologici” pubblicato su Carta , n. 29 dell’agosto 2007).
Continua...
Paesaggio e identità nazionale
Sono pagine bellissime quelle in cui un grande poeta europeo, Wolfang Goethe, racconta il suo viaggio in Italia, un viaggio a piedi e lento da Milano a Palermo. In Italia, ci dice il grande poeta romantico, c’è come una magia, una sorta di miracolo che esorbita dalle meravigliose città e dalle opere d’arte: c’è l’unicità di un paesaggio reso possibile da un mirabile intreccio fra una natura straordinaria – dolce nelle valli, ricca di vegetazione, mite nel clima - e una cultura e una storia che hanno saputo porsi come “seconda natura”, ovvero come un sistema di gesti umani che non aggredisce ma imita e valorizza la “prima” natura. Le specie naturali, gli ambienti geografici e le genti vive hanno trovato una contaminazione e una fusione, in un mosaico da cui scaturiscono le ville della lucchesia, gli elaborati giardini, i campi e gli orti popolati di case e di uliveti ma anche gli sfondi dei magnifici quadri di Leonardo, di Tiziano, di Giorgione: vicende pittoriche in cui l’umano in primo piano sembra nascere dagli alberi, dalle rocce, dalla tempesta all’orizzonte.Grazie a questo miracolo l’Italia per tutto l’Ottocento è stata meta ambita del “Gran Tour”, luogo privilegiato di una esperienza di formazione che coinvolgeva l’aristocrazia intellettuale europea: poeti, scrittori e, soprattutto, la “meglio gioventù”. Bellezza, memoria e questa straordinaria armonia, questa biodiversità ricchissima di natura e cultura, che si scopriva magnifica anche quando più tardi, i chierici e i colti viandanti spostarono gli itinerari sempre più verso sud: un “sud del desiderio”, come scrisse Friedrich Nietzsche, dove le asprezze, le rigidità e qualche conformismo della mitteleuropa si spezzavamo di fronte al chiarore del sole, all’azzurro del mare, ritrovando gioia, sensualità, nuova vitalità. Un Sud sulle cui sponde arrivavano le spezie, gli odori, i colori dell’Africa, dove la musica era malinconia araba, dove il fuoco e le nevi dell’Etna rammentavano la Grecia, dove ogni antro, ogni fiume, ogni foresta nascondevano una ninfa o una sirena, rappresentando una inedita ospitalità, una capacità di meticciato, il duplice valore di chi, consapevole di una identità, sa colloquiare con la differenza.
Fu certo per questo che Concetto Marchesi, il grande latinista e studioso del mondo classico, uno dei Padri nobili del movimento comunista italiano, si battè nell’Assemblea Costituente per inserire, fra i beni tutelati dalla Repubblica, il paesaggio. In un memorabile dibattito che durò più di sei mesi e che lo vide scontrarsi con l’On. Clerici che ironizzava sull’eccessiva importanza data al tema, Marchesi motivava l’impegno di tutela da parte della neonata Repubblica (e quindi l’inserimento nella Costituzione di quello che fu poi l’art 9), sottolineando come non si trattasse solo di una richiesta di anime belle rivolta a scopi estetici (nella legge del ’39 il paesaggio rientrava ancora nella categoria delle “bellezze naturali) ma di una battaglia per l’identità, per la difesa dei più alti valori civili. In quel paesaggio poteva infatti trovare fondamento etico una nuova idea di comunità, l’idea di una patria concorde e coesa non dal fascismo militare ma dal patrimonio artistico e memoriale lasciato dai Padri.
Dopo quasi cinquant’anni, consapevole dei rischi di anomia, di omologazione, di americanizzazione messi in atto da quel grande sradicamento che è insito nei processi di globalizzazione, anche l’Unione Europea ritorna su questa idea del paesaggio come fondamento dell’identità comunitaria dei Paesi membri. In un documento di svolta - La Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa (2000), ratificata dall’Italia nel 2004 - e partendo da una definizione assolutamente innovativa del paesaggio inteso come “una parte di territorio, così come è percepita dalla popolazione, i cui caratteri sono il risultato delle azioni naturali e umane e delle loro relazioni” (un’ idea sistemica che, mettendo al centro i due concetti di “percezione sociale del paesaggio” e di “ambiente di vita”, riesce a legare i paesaggi naturali e i paesaggi culturali, correlandoli alla comunità sociale), rimarca la necessità di porre il paesaggio come uno dei “beni originali” del Vecchio Continente da riconoscere giuridicamente : un “bene comune” da tutelare come ”componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art.5).
Il paesaggio naturale e la bellezza
La parola “paesaggio”, ci ricorda Luisa Bonesio, è una parola che, nelle lingue europee, è connotata da una singolare ambivalenza. Essa designa infatti sia il territorio, sia la sua rappresentazione caricata di valori estetici. Questo fa sì che il paesaggio, in tutta la tradizione moderna, sia stato inteso non come un “ambiente”, ossia “un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua e pietre” , ma come una “forma culturale”, anzi una “forma simbolica”, per dirla con George Simmel (Filosofia del paesaggio, 1912), ovvero uno spazio che è esterno, sì, ma che, nello stesso tempo, appartiene all’interno, al desiderio inconscio, al sentimento onirico, all’Anima stessa di un individuo o di una civiltà. Ciò che lo costituisce di fatto è perciò lo sguardo, la percezione visiva e soggettiva di un valore (in genere la bellezza). Non a caso è la finestra il punto di vista privilegiato nella rappresentazione pittorica: la finestra che delimita ciò che, al tempo stesso, è natura e visione.
Provenendo essenzialmente da una matrice filosofica, anche la tradizione italiana di tutela del paesaggio ha riposto le sue idee di salvaguardia sulla contemplazione e su un apprezzamento di bellezza. In questo senso fu pensata la prima legge di tutela del paesaggio (la 778 del 11 giugno 1922), presentata nel 1920 dal filosofo Benedetto Croce, allora Ministro dell’Istruzione nell’ultimo Governo Giolitti. Croce, richiamando la necessità di difendere e mettere in valore le bellezze naturali ed artistiche d’Italia sia per ragioni morali che di “pubblica economia”, assumeva il paesaggio come “veduta”, facendone la rappresentazione materiale e visibile della patria, del “volto amato della patria”. E anche la legge Bottai, ispirata ai principi crociati, identificava il paesaggio da proteggere “con le bellezze naturali considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di tali bellezze” (Legge 29 giugno 1939, n.1497, art.1).
Del resto, il modello vedutistico del paesaggio come “belvedere” e “panorama”, funziona particolarmente in Italia proprio per la qualità della sua “prima” Natura. Essa si mostra infatti con i caratteri appunto del bello e non del sublime: ovvero, come ci insegna Kant, dell’armonico, dell’apollineo, del misurato. E’ una Natura che si può abbracciare con lo sguardo, serena e accogliente, varia sì ma anche rassicurante e ben governata dall’uomo. Una Natura che è insieme femmina attraente e madre generosa, come nel quadro di Leonardo che abbiamo scelto in epigrafe: fruttifera e rotonda, come le uova; morbida anche fra gli alberi, nel verde, che si presenta non sotto le sembianze della foresta misteriosa e illegale o del bosco selvatico e oscuro, ma del “giardino italiano”. Essa parla di una biodiversità assoluta che però, dalla montagna alpina, densa di pascoli e frutteti, agli Appennini fitti di boschi misti di rovere, lecci e castagni, alla boscaglia maremmana, mantiene un andamento dolce e familiare anche quando si rivolge al Sud, formando un paesaggio di alberi educato e profumato: mandorli, fichi, noci, ulivi grandi come sculture umanizzate e avvolte nell’odore caldo e sensuale dei limoni e delle zagare.
Questo paesaggio naturale è oggi tutelato per circa il 20% da una rete ecologica di aree protette, riserve, zone di protezione speciale e siti di interesse comunitario. All’apprezzamento classico per la bellezza, si è aggiunta in questi anni , negli impegni di tutela, anche una tradizione che ha alla base il pensiero ecologico e che intende la bellezza – come ci spiega Giuseppe Prestipino – come “la singolarità che sconfina nella totalità per trovare equilibrio, amicizia, comunanza ontologica di tutti gli esseri viventi”; la bellezza dunque come appartenenza comune alla “grande catena dell’essere”, una costellazione dove l’uomo (animale umano) intreccia la sua vita con altre vite, “con la bella famiglia” di vite delle piante, delle stelle, degli altri animali. Tale tradizione ha trovato la sua migliore affermazione nella Legge 394 del 1991 sulle “aree naturali protette” intese come valori intrinseci, “valori in sé” avulsi dal criterio dell’utile (o dell’economico, del vantaggioso, del salubre) da consegnare come tali alle future generazioni.
La legge 394 ha portato alla costituzione in sistema dei primi parchi nazionali e ha indicato modi nuovi e forme avanzate di gestione (le “comunità del parco”) per la conservazione dei grandi paesaggi naturali: veri e propri Paradisi, scenari incontaminati di bellezza in cui può ancora sopravvivere una parte di Natura sottratta alla manipolazione umana e destinata alla contemplazione (una contemplazione viva, fatta di passeggiate e godimento e osservazione e studio e gioco). Ad essa si sono poi aggiunte la Direttiva Habitat del ’92 – che assume gli impegni di Rio di protezione della biodiversità - e il D.P.R. di recepimento n.357 del 1997 che, proteggendo i corridoi ecologici, le piste per le migrazioni, le enclaves delle specie, ha contribuito in qualche modo a difendere anche il paesaggio naturale. Come anche fa l’ultimo Decreto Ministeriale (frutto della passione ecologica di questo Governo) sui “Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione e Zone di protezione speciale”, del 17 ottobre 2007), un decreto fortemente avversato dalle lobbies dei cacciatori, dei proprietari di cave e dei nuovi affaristi dell’eolico.
Nonostante ciò non si è attenuato il rischio di degrado per l’intero paesaggio italiano. Il quale lo stesso sta perdendo molte delle caratteristiche che lo hanno reso riconoscibile nei secoli. Innanzitutto si è drammaticamente semplificato, smarrendo moltissima di quella biodiversità che lo distingueva da quello degli altri paesi europei e del mondo. Secondo alcuni dati forniti da Mauro Agnoletti, coordinatore della Commissione sul paesaggio istituita presso il Ministero delle politiche agricole e forestali, in certe zone collinari della Toscana, dove fino a tutto l’800, in un’area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi erborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 tessere di un ricchissimo mosaico paesaggistico, ora ce ne sono solo 18”. Ciò è accaduto perché fuori dai parchi e dalle zone protette è avvenuto uno scempio e il sistema della tutela basato sulla bellezza e sulla conservazione della natura ha rivelato le sue maggiori inadempienze.
Esso infatti non si è occupato del cosiddetto “paesaggio minore”, il paesaggio che non corrisponde al canone di eccellenza estetica o monumentale, né presenta un particolare pregio naturale, ma comunque ha a che fare con la sicurezza idrogeologica, con la riproduzione delle risorse naturali, con il contesto alle città, con la rispondenza al genius loci. Percepito come mero ambiente, questo tipo di paesaggio è ogni giorno aggredito dai rifiuti, dal cemento, dall’industria criminale degli incendi, dai parchi eolici, vere e proprie centrali industriali che, grazie al meccanismo perverso dei certificati verdi, proliferano di pale anche senza vento. Tanto da far pensare, come sostiene Alberto Magnaghi, che ci sia in Italia “una sorta di doppio regime: da una parte piccole porzioni di territorio dove si conservano come reperti museali la Natura (parchi, aree protette, biotopi) e la Storia (monumenti, centri storici, reperti archeologici); dall’altra grandi porzioni di territorio dove le regole prevedono la distruzione sistematica della Natura e della Storia”.
Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio può superare questo gap. Esso, fra le tante cose , prevede un nuovo protagonismo del Ministero dell’Ambiente, che, chiamato a copianificare con le Regioni e il Ministero dei Beni Culturali sul paesaggio, può pretendere di tutelare e di recuperare, contestualmente ai paesaggi eccellenti, anche paesaggi naturali degradati, paesaggi posturbani, paesaggi ex rurali , paesaggi su cui si è abbattuto in questi anni tutto il peggio del modello di produzione e di consumo. In questo senso stiamo lavorando ad una serie di iniziative di tutela del paesaggio “minore” (progetti di ripristino di lame e tratturi, recupero di inghiottitoi, neviere, cisterne, estensione del parco delle gravine, requisizione delle aree militari dismesse) . Fra queste particolarmente cara è quella legata al progetto “Mediterraneo ideale” che prevede il recupero di cinque fari (ad Otranto, Genova, Tunisi, Gibilterra, Alessandria d’Egitto) da destinare a Musei dell’amicizia e dell’ethos mediterraneo. E’ un progetto internazionale che però guarda all’Italia, per fornire un modello alternativo alla destinazione d’uso prevista dall’Agenzia del demanio per 200 fari italiani che, pur senza concessioni di proprietà ai privati, diventerebbero alberghi o centri di ristorazione.
3. Il paesaggio agrario .
Nel “paesaggio minore” possiamo classificare anche il paesaggio agrario, che ricopriva fino a poco tempo fa gran parte del territorio italiano. Esso è infatti ugualmente negletto. La perdita della biodiversità e della magnifica complessità del giardino italiano è dovuta al fatto che il paesaggio rurale si è drammaticamente semplificato: un fenomeno causato dal massiccio procedere dell’agricoltura industriale che, imponendo coltivazioni specializzate (monoculture: grano, mais, ed ora soia, colza e girasole per fare il biodiesel) , ha scarnificato il mosaico, riducendo le culture promiscue, e quella varietà di colori, di profili, di vegetazioni che avevano reso suggestivo tutto il palinsesto.
L’importanza del paesaggio agrario era stata sottolineata già nella visione di Concetto Marchesi, e dei costituenti che seguirono il dibattito sull’art. 9 (Emilio Lussu, Tristano Codignola, Palmiro Togliatti soprattutto). Una visione in cui c’era, oltre la difesa, pur fondamentale, dei valori artistici e culturali come fattori civili e identitari, il tentativo di recupero della storia delle “genti vive”, un riconoscimento di valore e di riscatto fatto al popolo, soprattutto al popolo contadino, al suo ingegno, alle sue conoscenze, alla sua fatica. Alle spalle la lezione di Emilio Sereni ma anche i libri di Pavese e Vittorini: storie di uomini che conversavano con i luoghi, con un paesaggio da cui emergeva non solo il genio eccellente, ma il genio diffuso, l’intelligenza nazional – popolare, la capacità inventiva del lavoro.
Non c’è dubbio – scrive Piero Bevilacqua che , fra l’altro, ci sollecita a dare vita ad un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano, una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Belpaese – che l’unicità del miracolo italiano sia in gran parte legata alla complessità del paesaggio rurale italiano. “Alla varietà incomparabile degli habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno - dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante varietà di climi, di morfologie, di suoli – si è aggiunta “la molteplicità e stratificazione delle impronte che tante e diverse civiltà hanno lasciato su questa ricchezza biologica”. Ad un “patrimonio incomparabile di piante, di colori, di tipi di vegetazione, si sono sovrapposte, esaltandolo, una varietà di culture, la complessità storica: Greci, Etruschi, Romani, Arabi che vi hanno impresso una impronta ecologica incomparabile fornendo un contributo così ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e recinzioni della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti sparsi, incastonati negli habitat più diversi. Manufatti che hanno un valore artistico speciale, una genialità edificatoria incomparabile: briglie romane, acquedotti, ponti, canali, cisterne, fontane, pozzi; e la stessa architettura rurale, poi lame, canali, gravine, mulini, frantoi, stalle, muretti a secco, terrazzamenti. E le malghe in legno e pietra, ricovero per uomini e animali. E poi le ville e le cascine, piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate a volte di mura di cinta, e le masserie” dove ancora sopravvivono i terrazzamenti e i muretti secco; non solo veri e propri musei dell’agricoltura a cielo aperto , che testimoniano un’età straordinaria del lavoro contadino, ma anche monumenti di una civiltà della natura, se è consentito l’ossimoro, una civiltà capace di usare l’artificio non in opposizione ma in sintonia e in equilibrio con i cicli naturali, gli elementi naturali, i tempi naturali.
Questa civiltà (penso alla civiltà contadina ma anche alla civiltà rupestre) giace ormai allo stremo. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale, dopo decenni di PAC che ha reso esasperata la pressione produttiva del suolo, dopo sempre più intensi dissodamenti di boschi e pascoli, di inquinamenti di pesticidi e concimi, di iperconsumo di acqua, essa appare mutilata non solo nei suoi paesaggi, ma nei suoi uomini e nella sua cultura. I contadini – considerati “residuati della Storia”, figure arcaiche destinate a scomparire con il progredire dello sviluppo e della modernità - non esistono quasi più, trasformati in “imprenditori agricoli”, direttamente collegati al mercato mondiale e votati alla fatalità di una crescita monoculturale e quantitativa. Così come non esistono più i loro valori, il loro mondo di relazioni. Come ci insegna Luigi Lombardi Satriani, la perdità della biodiversità della flora e della fauna qui come non mai anticipa e precede una perdità sociale e antropologica, e sostiene il venir meno del sentimento di comunità. Una nuova questione meridionale avanza, quella che vede in primo luogo l’anomia, la disgregazione sociale e poi la colonizzazione culturale, la perdita di una lingua propria, di propri miti, della propria diversità. Mentre le bambine si chiamano tutte Deborah, Roxana e Samantha, le nonne muoiono o smettono di raccontar le fiabe, grandi narrazioni del genius loci.
Di fronte a questa catastrofe il governo democratico non può trovare scorciatoie. Certo è bene praticare una serie di strade che limitino nell’immediato la sparizione del paesaggio agrario. Per esempio la istituzione sul territorio nazionale di Ecomusei con l’intento di conservare e valorizzare la complessità delle testimonianze materiali e immateriali del mondo contadino e capaci di riattivare la complessa rete di relazioni che caratterizzano una data comunità, per la valorizzazione delle tradizioni e dei saperi locali, per promuovere uno sviluppo autocentrato e locale (importanti sono, in questo senso, le due leggi approvate dalla Regione Piemonte (legge 31 del 1995) e dalla Regione Friuli (legge 148 del 2006). O anche la realizzazione di parchi agricoli multifunzionali che consentono di attivare finanziamenti con fonti multisettoriali e aiuti tecnici per le diverse funzioni di produzione di beni e servizi pubblici da parte degli agricoltori. Importante è anche la piena applicazione della Convenzione di Kiev sugli incentivi alle aree agricole ad alto valore naturalistico. E infine è importante la diffusione di una politica di prodotto che sostenga un mercato di qualità, biologico, capace di collegare il prodotto al contesto (gli inglesi che bevono il Chianti, bevono anche l’immagine di quelle terre).
Ma è soprattutto ad un rilancio complessivo dell’agricoltura che si deve mirare, intendendola come relazione complessa fra natura e società che riguarda sia la sfera della produttività economica che quella della ricchezza ecologica ed antropologica. Come ripete la Federazione dei Paysans Travailleurs, che ha avviato in Francia la riflessione sulla possibilità di realizzare nelle società moderne una agricoltura attenta al pianeta e agli esseri umani, l’attività agricola esprime un sistema di tecniche e di relazioni che per lungo tempo hanno convissuto con la natura in maniera più saggia dell’umanità contemporanea. Sono tecniche non desuete e non destinate alla museificazione – come sa Pietro Laureano, architetto degli archetipi che sta attualmente lavorando ad un Atlante delle conoscenze tradizionali commissionato dall’UNESCO – , tecniche tradizionali legate alle conoscenze più antiche delle comunità, ai materiali del posto, a sistemi di costruzione, di risparmio idrico, energetico, di suolo che possono far invidia a tecnologie sofisticate e che quindi hanno una carica assolutamente futuribile. Ne abbiamo avuto prova patrocinando il recupero di una cisterna a tetto (ripristinata a Matera nel 2006 grazie al lavoro volontario di una ventina di operai) che ricrea un sistema di raccolta e conservazione delle acque superficiali una volta assai diffuso nelle masserie della Murgia e ancora oggi assai esemplare: un intervento che si colloca in un progetto europeo di più ampio respiro scientifico – il progetto Shaduf, realizzato da Ipogea – che ha l’obiettivo di studiare e riattualizzare tutti i sistemi di raccolta d’acqua in tutta l’area mediterranea, attraverso l’utilizzo dei saperi tradizionali .
Il rilancio dell’agricoltura – di una agricoltura ecologica – prevede anche il rilancio di un’etica. La terra, come l’acqua e come l’energia, appartiene infatti a quei “beni comuni” che sono patrimonio dell’intera umanità, anzi dell’intera vita. Per questo abbiamo istituito presso questo Sottosegretariato, un gruppo di lavoro capace di elaborare una nuova legge di tutela degli usi civici, che si impegnasse a mantenere questa forma originale di possesso della terra affidandola alla comunità custode. E’ questa una prassi nata in epoca medioevale che prevedeva per la popolazione la possibilità consuetudinaria di trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque e che ha trovato configurazione giuridica in una Legge del 16 giugno 1927 (legge n. 1766) che censiva e stabiliva in qualche modo i diritti di “proprietà collettiva” al fine di consentire una coerenza con il regime di proprietà privata. Oggi questa legge va decisamente aggiornata sia alla luce del nuovo dibattito sul possedere – il “bene comune” - , sia nei criteri di gestione e nell’allargamento delle forme di partecipazione, sia nella tutela ambientale (si tratta per lo più di zone montane, veri e propri patrimoni di biodiversità), sia nelle modalità di contrasto dei processi in atto di alienazione e di speculazione.
Il paesaggio vuoto.
Il grande antropologo Ernesto De Martino ne La fine del mondo racconta di quando, durante un viaggio in Calabria nei pressi di Morcellinaria, chiese ad un giovane contadino di indicargli la strada provinciale che aveva smarrito. Il giovane gentilmente lo accompagnò per un tratto in macchina fuori dal paese ma, man mano che la macchina si allontanava e che aumentava la distanza dalle ultime case, cominciò a girare frequentemente la testa all’indietro e ad avere veri e propri attacchi di panico. Interrogato da De Martino rispondeva di essere rimasto smarrito dal non vedere più il campanile di Morcellinaria. Una vera e propria “crisi della presenza”, l’angoscia terribile (angoscia territoriale, la chiama De Martino) di chi, avendo perso i propri punti di riferimento, rischia la “fine del mondo”, l’apocalisse culturale, il non-essere-più dell’identità .
L’episodio rimanda ancora al paesaggio visto però questa volta in un aspetto desueto, come sostegno psicologico. Esso assume il valore che Marc Augè attribuisce al “luogo”, uno spazio che non è mai un contenitore, un mero esterno fisico, e nemmeno è più una rappresentazione mentale, ma una componente del benessere psichico e affettivo, la garanzia di una “ecologia dell’Io”. L’uomo se lo porta addosso come una specie di placenta invisibile anche quando è nomade, anche quando parte o fugge via: il beduino del deserto, per esempio, che ad ogni nuovo arrivo monta la tenda e la ricopre di tappeti istoriati della casa di provenienza (da qui, fra l’altro, nasce la credenza del “tappeto volante”). E così anche la nonna immigrata nella metropoli del Nord che si affretta ad allestire al suo arrivo un reliquiario di ninnoli, fotografie e icone, simboli del Paese da cui è stata sradicata.
Il luogo dunque come uno spazio in cui si conversa con il territorio trovando lì dei legami, il senso di una appartenenza, il valore della radice. Ma anche luogo come spazio relazionale dove si riscopre un senso e una cittadinanza. Luogo come può essere, per esempio, il paese natio, scrigno magico in cui vengono conservati i dolci legami dell’infanzia gli odori della cucina della nonna, le braccia della madre e la sua lingua. Luogo come “il posto delle fragole”, il quartiere che ospitò i giochi, la panchina dei baci e dei primi amori. Luogo come l’alberghetto dove un nuovo meticciato racconta storie sfuggite al naufragio. Luogo come il sito della divinità, delle potenze protettrici, dei buoni morti; luogo come il posto “santo” da lasciare incontaminato perché, come nel bellissimo film di Herzog, possano ancora andare a riposare gli antichi dei, le “Formiche Verdi”.
Tale luogo per adempiere al suo compito non deve essere necessariamente bello, né particolarmente carico di arte o di storia. Meglio se ha il mare o la foresta come sfondo, ma anche se è solo una pietra o una fontana o un dirupo, lo stesso, in qualche modo, deve essere tutelato perché eliminarlo o modificarlo bruscamente significherebbe offendere l’Io, interrompere una conversazione ingenerando l’angoscia che può portare ad una frustrazione se non proprio, al limite, ad una catastrofe. Anche il cambiamento perciò deve contenere elementi di riconoscimento, nel quale l’individuo, come dice Patrizia Resta, si percepisca sempre come parte in gioco. Ogni trasformazione cioè deve essere leggibile e saper mantenere – al di là dell’invenzione sulle forme, i materiali, le dimensioni – alcune costanti antropologiche che rinviano ai bisogni fondamentali dell’abitare: il rapporto con la Natura, il simbolismo del centro, la qualità comune dello spazio ludico, religioso, comunicativo, la presenza del vuoto. Rivendichiamo l’importanza del vuoto. Continuiamo a riempirlo in una sorta di horror vacui che ritiene che ciò che non è costruito è un non-senso e che spinge ad una volontà di urbanizzazione che deve essere infinita. Dietro c’è sicuramente l’affare ma anche il pregiudizio antropocentrico.
L’Homo riempitore e fabbro va fermato, va curata questa sua pulsione - una vera e propria “pulsione di morte” - che giudica “depresse” o inutili tutte quelle aree che non partecipano all’economicismo e alla funzionalità dello sviluppo. E’ una pulsione che non solo stravolge il simbolismo dei luoghi ma che consente anche la proliferazione di metastasi, di non-luoghi, di spazi senza identità, spazi senza comunità, che si possono solo attraversare. Essi dominano ormai le strade di Italia, dipanandosi in un reticolo di centri commerciali (480 solo nel 2006), capannoni industriali (7550 sempre nel 2006) , pale eoliche (2575 sempre nel 2006). Per non parlare poi dei tracciati dell’alta velocità, di linee elettriche, svincoli, aree di rifornimento, parcheggi, terreni vaghi simili a discariche: scenari all’americana, figli di una “monocultura paesaggistica” quasi sempre violentemente estranea alla configurazione dei territori attraversati, priva delle memorie artistiche, delle culture, degli ecosistemi e carica invece delle immagini seriali costantemente veicolate dalla televisione e dai films (immagini che per questo finiscono di imporsi quasi come una consuetudine, (come accade già, avverte Mario Salomone, “nell’informe metastasi della pianura lombardo-veneta: un disordinato susseguirsi di capannoni, autostrade, centri commerciali, villette di un incipiente urban sprawl).
Scenari monotoni e ripetitivi di costruzioni che non solo affollano le città come non mai (mille sono stati i casi di aggressione edificatoria contro cui siamo intervenuti: da Savona, dove un architetto “surmoderno” vuole costruire un megagrattacielo sullo scoglio votivo della Madonnetta, a Otranto, dove la marina militare vuole seppellire sotto un pugno di villette il Faro di Punta Palascia); ma che riempiono quel che rimane degli spazi aperti, degli spazi verdi, di quelli che appunto ancora rimanevano “vuoti”. Negli ultimi quindici anni, secondo dati ISTAT riportati in una denuncia del Comitato italiano per la bellezza, sono stati divorati dal cemento oltre 3 milioni 663 mila ettari di verde - duecentoquarantamila ettari ogni anno - una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo, con un consumo del territorio senza uguali in Europa. La minaccia prima viene dalle abitazioni private (331.000, nel 2005), tutte costose e in zone pregiate, seconde e terze case che non hanno diminuito affatto l’emergenza abitativa e che, nel segno di quella speculazione che ora si chiama “valorizzazione immobiliare”, hanno offeso non più solo il paesaggio costiero ma anche quello interno (valli, colline, vigneti: come a Pienza, come a Monticchiello).
Qui non fa testo la “questione meridionale”: è la Liguria (già stravolta da porti e porticcioli), la Regione che più ha consumato in edilizia e continua un assalto al territorio che, per la prima volta, è del tutto legale. Perché, se è vero che questa fase di intensa edificazione è stata aperta e consentita da una stagione di abusi e condoni, da una deregulation che ha stravolto e azzerato ogni legge di tutela ambientale, urbanistica, demaniale, da una “cartolarizzazione” eretta a sistema (i frutti nefasti del Governo precedente), è anche vero che qualcosa non funziona nella normativa ordinaria. A cominciare dai Comuni che, forti di una Delega alla tutela al paesaggio accordata loro in alcune Regioni – che, a loro volta, avevano visto attribuirsi la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali, nonché la tutela dell’ambiente dal DPR 616 del 1977 – si sono spinti a cercare nuovi introiti di urbanizzazione dilatando i permessi di lottizzazione e creando così una vera e propria emergenza nazionale
Nel denunciare questo sacco senza precedenti, il Ministro Rutelli ha preparato una rivisitazione del Codice dei Beni Culturali (DLgs 42/2004), proprio nella parte che riguarda sia il patrimonio culturale che i beni paesaggistici (le ultime modifiche sono state approvate qualche settimana fa). Forte anche di una sentenza della Corte Costituzionale (la 367, del 7 novembre 2006), che ribadisce che “il paesaggio, considerato un valore primario e assoluto, rientra nella competenza prevalente dello Stato”, la nuova stesura rivendica una maggiore presenza dello Stato nella gestione del paesaggio sottoposto a tutela esercitandola in due maniere: quella (cara a Salvatore Settis) della tradizionale procedura vincolistica che affida un potere vincolante ai pareri dei Sovrintendenti su pianificazione, autorizzazioni e controlli; e quella invece più nuova e forse efficace (cara a Edoardo Salzano) che sollecita le Regioni ad attivare intese di copianificazione con le Amministrazioni dello Stato (il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero dell’Ambiente), al fine di redigere Piani paesaggistici in cui vengano precisati con ampiezza i contenuti e gli strumenti della tutela e in cui vengano coinvolte non solo le istituzioni ma le popolazioni.
Il fine dei Piani Paesaggistici – rispetto ai quali stiamo elaborando delle Linee Guida generali - è quello di una “tutela dinamica” che parta appunto da quella coscienza di luogo messa in campo dalla Convenzione europea: un percorso che implica responsabilità individuale, gusto estetico, processi partecipativi, sentimenti identitari, valori di comunità ed una educazione ambientale che avvenga sia nella scuola che “all’aria aperta” (al proposito si rimanda al testo “Alfabeti ecologici” pubblicato su Carta , n. 29 dell’agosto 2007).
Pubblicato da Terraceleste alle 12:13 0 commenti
martedì 5 febbraio 2008
lunedì 21 gennaio 2008
DISCORSO ALLA SAPIENZA DI BENEDETTO XVI
Allego, per gli interessati, il testo dell'intervento predisposto da Benedetto XVI per l'inaugurazione dell'anno accademico all'università "La Sapienza" di Roma.
Un discorso "alto", filosoficamente stimolante, con il quale è stato davvero un peccato non volersi confrontare.
Se non apprezzo per nulla l'azione potico-religiosa di questo papato, non mi riconosco neppure in quel fondamentalismo laicista che, peraltro, parla ancora il linguaggio positivista di uno scientismo che, di fatto, già all'inizio del secolo scorso, avvertiva drammaticamente la crisi dei propri fondamenti. Se forse è stata poco opportuna la circostanza dell'inaugurazione dell'Anno accademico per invitare il papa a parlare, tuttavia trovo anche grottesco rifiutarsi di ascoltare preventivamente e negare la parola, tanto più se questo avviene all'interno di un'istituzione come quella universitaria, nata proprio dall'esigenza di una parola libera. Quando anche l'Università, o sue componenti, si comportano come una Chiesa, allora, davvero bisogna allarmarsi. Il vero vulnus è quello che l'Università ha arrecato a se stessa.
Non c'è nulla di più fuorviante, allora, che appiattire lo scontro - che è in atto nel nostro paese - tra fondamentalismo laicista e scientista e fondamentalismo cattolico. Al discorso del papa - un discorso filosofico da parte a parte - è la filosofia che è chiamata a rispondere.
Se la natura di questo scontro è politica ed investe i rapporti tra politica e religione in uno stato laico e moderno, ciò non ci esime dall'andare ancora più a fondo nei contenuti filosofici di questo documento davvero emblematico di questo papato, per cercare di comprendere innanzitutto il significato per nulla scontato delle parole attraverso le quale si esprime.
Bisogna dunque domandarsi:
1) quale tipo di fede ha in mente questo papa? in che rapporto stanno, per lui, fede e speranza, da un lato e, dall'altro, fede e ragione? (cfr. a tale proposito l'ultimo documento, anch'esso assai significativo, sulla speranza)
2) ma, soprattutto, che cosa intende questo papa per ragione e per verità? Non vi è dubbio circa l'accentuato razionalismo di questo papa, ma come definire quella ratio cui fanno riferimento tutti i suoi discorsi? A quale idea di ragione si riferisce? Lo stesso discorso vale per il concetto di verità, che anche in questo scritto viene riaffermato con forza.
Insomma, ci troviamo di fronte ad un compito filosofico, prima ancora che politico o spirituale, ed è proprio la razionalità filosofica espressa dal teologo Joseph Ratzinger che andrebbe innanzitutto decostruita con gli strumenti della filosofia.
Due sono le lingue fondamentali di questo papato: il latino, riportato in auge anche nella liturgia, lingua sacra e, al contempo, lingua dell'Impero, lingua civile, lingua curiale della politica (e già qui è presente un poderoso paradosso nell'assunzione, come lingua sacra, entro la quale si dovrebbero dire la "critica" e il distacco dal mondo, della lingua del potere mondano per eccellenza, il latino dell'impero romano, segno, certo, di una vocazione universale, ma anche di una rischiosa commistione, che non abbandonerà più la Chiesa cattolica, con il teologico-politico) e il greco della filosofia, tradotto poi nei termini della ratio occidentale.
Solo attraverso la decostruzione di questa potente impalcatura sarà possibile un serio confronto con questo papato, con il suo insidioso razionalismo, vero nucleo del suo profondo conservatorismo. Ciò è tanto più necessario sia per far scaturire il rinnovato senso di una fede e di una spiritualità di cui oggi da molte parte si avverte l'insopprimibile bisogno, sia per lasciare spazio a forme di pensiero che questi modelli di razionalità e di verità lungo tutto il Novecento hanno con grande rigore provveduto a decostruire.
prof. Caterina Resta
Dipartimento di Filosofia
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Messina
Ecco il testo integrale dell'allocuzione che Papa Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare all'universitá di Roma «La Sapienza» subito dopo l'inaugurazione dell'anno accademico, pubblicato dalla Santa Sede.
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.
Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".
Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.
Ritorno alla mia domanda di partenza: che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità.
Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato.
Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.
Ma ora ci si deve chiedere: e che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.
Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.
Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.
Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista.
Ma qui emerge subito la domanda: come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica.
I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.
Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.
Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze.
Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò.
Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.
Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito.
Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati.
Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande.
Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
Città del Vaticano, 17 gennaio 2008
Benedictus XVI
16 gennaio 2008
Continua...
Un discorso "alto", filosoficamente stimolante, con il quale è stato davvero un peccato non volersi confrontare.
Se non apprezzo per nulla l'azione potico-religiosa di questo papato, non mi riconosco neppure in quel fondamentalismo laicista che, peraltro, parla ancora il linguaggio positivista di uno scientismo che, di fatto, già all'inizio del secolo scorso, avvertiva drammaticamente la crisi dei propri fondamenti. Se forse è stata poco opportuna la circostanza dell'inaugurazione dell'Anno accademico per invitare il papa a parlare, tuttavia trovo anche grottesco rifiutarsi di ascoltare preventivamente e negare la parola, tanto più se questo avviene all'interno di un'istituzione come quella universitaria, nata proprio dall'esigenza di una parola libera. Quando anche l'Università, o sue componenti, si comportano come una Chiesa, allora, davvero bisogna allarmarsi. Il vero vulnus è quello che l'Università ha arrecato a se stessa.
Non c'è nulla di più fuorviante, allora, che appiattire lo scontro - che è in atto nel nostro paese - tra fondamentalismo laicista e scientista e fondamentalismo cattolico. Al discorso del papa - un discorso filosofico da parte a parte - è la filosofia che è chiamata a rispondere.
Se la natura di questo scontro è politica ed investe i rapporti tra politica e religione in uno stato laico e moderno, ciò non ci esime dall'andare ancora più a fondo nei contenuti filosofici di questo documento davvero emblematico di questo papato, per cercare di comprendere innanzitutto il significato per nulla scontato delle parole attraverso le quale si esprime.
Bisogna dunque domandarsi:
1) quale tipo di fede ha in mente questo papa? in che rapporto stanno, per lui, fede e speranza, da un lato e, dall'altro, fede e ragione? (cfr. a tale proposito l'ultimo documento, anch'esso assai significativo, sulla speranza)
2) ma, soprattutto, che cosa intende questo papa per ragione e per verità? Non vi è dubbio circa l'accentuato razionalismo di questo papa, ma come definire quella ratio cui fanno riferimento tutti i suoi discorsi? A quale idea di ragione si riferisce? Lo stesso discorso vale per il concetto di verità, che anche in questo scritto viene riaffermato con forza.
Insomma, ci troviamo di fronte ad un compito filosofico, prima ancora che politico o spirituale, ed è proprio la razionalità filosofica espressa dal teologo Joseph Ratzinger che andrebbe innanzitutto decostruita con gli strumenti della filosofia.
Due sono le lingue fondamentali di questo papato: il latino, riportato in auge anche nella liturgia, lingua sacra e, al contempo, lingua dell'Impero, lingua civile, lingua curiale della politica (e già qui è presente un poderoso paradosso nell'assunzione, come lingua sacra, entro la quale si dovrebbero dire la "critica" e il distacco dal mondo, della lingua del potere mondano per eccellenza, il latino dell'impero romano, segno, certo, di una vocazione universale, ma anche di una rischiosa commistione, che non abbandonerà più la Chiesa cattolica, con il teologico-politico) e il greco della filosofia, tradotto poi nei termini della ratio occidentale.
Solo attraverso la decostruzione di questa potente impalcatura sarà possibile un serio confronto con questo papato, con il suo insidioso razionalismo, vero nucleo del suo profondo conservatorismo. Ciò è tanto più necessario sia per far scaturire il rinnovato senso di una fede e di una spiritualità di cui oggi da molte parte si avverte l'insopprimibile bisogno, sia per lasciare spazio a forme di pensiero che questi modelli di razionalità e di verità lungo tutto il Novecento hanno con grande rigore provveduto a decostruire.
prof. Caterina Resta
Dipartimento di Filosofia
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Messina
Ecco il testo integrale dell'allocuzione che Papa Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciare all'universitá di Roma «La Sapienza» subito dopo l'inaugurazione dell'anno accademico, pubblicato dalla Santa Sede.
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.
Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".
Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.
Ritorno alla mia domanda di partenza: che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità.
Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato.
Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.
Ma ora ci si deve chiedere: e che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.
Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.
Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.
Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista.
Ma qui emerge subito la domanda: come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica.
I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.
Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.
Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze.
Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò.
Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.
Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito.
Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati.
Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande.
Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
Città del Vaticano, 17 gennaio 2008
Benedictus XVI
16 gennaio 2008
Pubblicato da Terraceleste alle 11:46 1 commenti
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